Una conversazione con Alessandro Coltré sul podcast Willy, una storia di ragazzi. Vita, morte e bellezza di Willy Monteiro Duarte
di Sara Ciprari
La notte tra il 5 e il 6 settembre 2020, Willy Monteiro Duarte, un ragazzo italiano di origine capoverdiane, muore massacrato di botte a Colleferro, in provincia di Roma. I nomi dei suoi assassini sono noti fin dalle prime ore: Mario Pincarelli, Francesco Belleggia, i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, quattro ragazzi di Artena (paese vicino Colleferro) poco più che ventenni. Ha inizio da subito anche lo sciacallaggio mediatico. Tv e stampa nazionali restituiscono una narrazione distorta e superficiale dei fatti: È stato un omicidio a sfondo razzista; Willy è morto dopo 20 minuti di botte; Colleferro provincia criminale; Il traviamento morale dei giovani d’oggi; L’MMA è lo sport violento che ha ucciso Willy; La vita spezzata di un calciatore in erba. A poco più di due anni di distanza, un podcast intitolato Willy, una storia di ragazzi, coprodotto da Dersu e Storie Libere, prova a fare chiarezza su quanto è accaduto indagando le ragioni politiche, sociali e materiali radicate nella bruta violenza di quella sera. Nel corso degli otto episodi che lo compongono, le voci degli amici di Willy – ragazzi di Paliano, Artena e Colleferro, tre comuni al confine tra la provincia di Roma e quella di Frosinone – si intrecciano a quelle degli esperti – antropologi, sociologi, e giornalisti – coordinate dagli autori Christian Raimo, Alberto Nerazzini e Alessandro Coltré, dalla voce narrante dell’attore comico Claudio Morici, e accompagnate dalle musiche di Teho Teardo.
Alessandro Coltré è un giornalista e attivista di Artena, scrive per Economia circolare e organizza iniziative ambientali e culturali per il territorio; io sono di Valmontone, un paese a circa cinque chilometri da Artena. L’ho incontrato in una tavola calda di Colleferro, in una giornata piovosa di maggio, dopo esser riusciti a incastrare i rispettivi pendolarismi verso Roma.
Partiamo dal titolo, Willy, una storia di ragazzi. Sembra possedere una forte carica polisemica. A chi è venuta l’idea?
AC: L’idea del titolo è nata sul campo, all’inizio doveva essere Il ragazzo e le città oppure Tre città. Man mano che cresceva il numero delle interviste fatte, ci siamo resi conto che avevamo una pluralità di voci e che il racconto era corale, un rito collettivo per elaborare il lutto. Molti ci hanno ringraziato per aver dato loro l’opportunità di riparlarne, di intrecciare la loro memoria su quanto era accaduto. Una storia di ragazzi anche perché nessuno dei protagonisti arriva a trent’anni di età, ma il nostro intento non è quello di infantilizzare la questione, anzi, abbiamo voluto trasformare la vicenda in un racconto generazionale. Inoltre, il genere maschile del termine ragazzi allude al fatto che sono tutti maschi i protagonisti della vicenda e maschiliste le sue dinamiche. Le voci femminili del podcast sono quelle arricchenti, più raziocinanti. Ad esempio, il passaggio in cui l’amica di Willy, Michela Timperi, racconta di un esperimento sociale svolto con il servizio civile (ndr. una donna viene uccisa da un folle sulla strada del ritorno dalla casa del suo amante; tutte le ragazze e i ragazzi che partecipano al brainstorming colpevolizzano la donna fedifraga, anziché il folle omicida, associando indebitamente la sua morte al tradimento commesso). L’episodio non era richiesto, nasce da un’associazione di idee fatta durante l’intervista: un tipo di violenza che apparentemente non c’entra nulla, ma è utile per ragionare sulle forme di possesso.
Proprio le relazioni interpersonali sembrano ingabbiate all’interno di schemi comportamentali atavici, di matrice patriarcale, attuati dai maschi protagonisti di questa vicenda. Come siete arrivati a questa chiave di lettura?
AC: La dinamica di quella sera è talmente banale che sarà accaduta centinaia di volte. Un catcalling, un atteggiamento maschilista che sfugge all’uomo stesso che lo attua. Da maschio, mi sento di dire che è più facile immedesimarsi negli accusati che nella vittima. L’istinto di difendere la tua ragazza da un apprezzamento molesto, oppure importunarne una perché hai bevuto troppo, ti avvicina di più agli accusati. Ti rendi conto che quell’atteggiamento riflette una concezione patriarcale delle relazioni quando ascolti Azzurra Biasotti (ndr. la ragazza vittima del catcalling) dire durante il processo: “Per me era finita là”. I suoi amici invece decidono di continuare la questione, trasformandola in una rivalità tra paesi, e in una rissa che si è verificata centinaia di volte. È la stupidità del patriarcato. Anche alcuni miei amici, attivisti e progressisti come me, alla fine del podcast erano sorpresi di questa lettura e la negavano: “Ma come, era questo il punto a cui volevate arrivare?”. Ma non c’è altro motivo oltre a quello atavico della disputa tra maschi per imporre il loro prestigio attraverso la violenza, a cui si somma una questione identitaria: a un certo punto la lite diventa Artena contro Colleferro.
Quanto è forte il collante dell’appartenenza allo stesso paese in questa storia?
AC: Non si tratta di bande, di criminalità organizzata. Quei quattro, adesso condannati, non costituiscono una banda, sono uniti solo dal fatto di essere tutti di Artena. Ora esagero, ma potevo esserci anche io fra quei quattro. Erano solo uniti dal fatto che si conoscevano tra di loro. Uno spirito di cameratismo da quartiere. Lo confessa lo stesso Gabriele Bianchi al processo: “Sinceramente pensavo che fosse in pericolo Michele Cerquozzi, che è magro”. Non si pone neanche il problema di chi sta menando: le telecamere contano 1 minuto e 25 da quando i fratelli Bianchi parcheggiano il suv e poi se ne vanno.
Tra l’altro, una cosa assurda che mi è rimasta impressa, è che i due fratelli prima di arrivare stavano scopando in macchina con due ragazze. Era un legame familiare talmente forte il loro, quasi simbiotico, che fa condividere ai due ogni cosa, dalla scazzottata all’intimità sessuale. Non trascorrono forse nemmeno dieci minuti, che passano da quell’atto sessuale, da quel tipo di serata, alla violenza della rissa, al dover dare dei pugni.
Però sembrano due comportamenti complementari, due performance fisiche su cui costruiscono la loro reputazione di maschio alfa, il loro prestigio sociale…
AC: Esatto, è proprio così. I due fratelli vivono di un precariato della criminalità che per loro è fatto di recupero crediti, velocità e reputazione. Loro non si domandano chi è coinvolto nella rissa, arrivano e agiscono come un fulmine e vengono riconosciuti. Anche quella sera tutti gridano: “Arrivano i Bianchi, arrivano i Bianchi”. Costruiscono la loro fama sulla rapidità di azione, la garanzia di un pronto intervento che attuano sia per difendere un amico in difficoltà sia per esigere il saldo dei debiti per droga.
Veduta di Artena, 2016 ©Emiliano Toti
Tra le immagini che più mi sono rimaste impresse c’è quella dei due fratelli che interpretano Gandhi e Mandela in una recita scolastica. L’immagine è rievocata dalla loro maestra di scuola elementare. La stampa nazionale e il dibattito sul web li avevano invece trasformati in meme del male. È stato difficile restituire complessità umana alle loro figure, senza minimizzare la gravità del reato compiuto?
AC: L’aneddoto è nato un po’ per caso. Mi trovavo per altri motivi a casa di una signora di Artena, una delle maestre dei due fratelli, che svolgeva nella loro classe solo poche ore, e mi raccontò con voce incredula della recita: “Cioè, Alessà, ti rendi conto”.
Restituire tridimensionalità ai due fratelli è stata la parte più difficile. Un po’ perché, come si nota, nel podcast non ci sono voci di amici dei fratelli Bianchi; era difficile averle, non avendo amicizie in comune. Il fratello maggiore di Marco e Gabriele si è mostrato disponibile alla collaborazione. Lui, senza negare la violenza, sostiene che avessero un codice morale che non li avrebbe mai portati ad accanirsi in quel modo sul corpo di Willy. La maggior parte delle informazioni le ha ottenute Christian, che nell’ambiente dei Bianchi si è mosso più da educatore, da insegnante, che da giornalista. Si è presentato a casa dei Bianchi con dei libri che voleva consegnargli tramite il fratello. L’idea originale era quella di intervistare proprio Marco e Gabriele Bianchi, ma non è stato possibile dopo che è cambiato l’avvocato difensore.
Quello che pensiamo, lo dice anche Morici nel podcast, è che i muscoli dei due fratelli hanno sovrastato tutti nel racconto. Avere da un lato una vittima così innocente e dall’altro persone ipermuscolose, tatuate, un po’ coatte: sembra che le foto parlino per loro. Quando poi guardi i video del processo, la puntata di Un giorno in pretura, sembra esserci una discrepanza tra la loro imponenza fisica e la loro rozzezza nel parlare durante il processo: i giornalisti e gli avvocati quasi li prendono in giro perché non sanno esprimersi in italiano. Gli imputati sono caratterizzati da una forte marginalità culturale. Non lo abbiamo sottolineato nel podcast, ma tutti e quattro sono stati bocciati alle scuole medie e di loro solo Francesco Belleggia ha terminato le superiori.
In diversi episodi del podcast vi siete preoccupati di smentire l’ipotesi di un movente razzista dietro l’omicidio di Willy, rispettando la sentenza del giudice nel processo. Ma nelle interviste agli esponenti della comunità capoverdiana sembra emergere la percezione di un razzismo strisciante dietro l’accaduto.
AC: Sulla questione del razzismo sento di aver trovato le risposte nel testo di Djarah Kan, I muscoli di Colleferro; noi ne abbiamo citato un piccolo pezzo. Lei dice che alcuni sintomi di razzismo si legano al machismo, e ce li abbiamo tutti dentro. L’errore è stato trasformare gli assassini in esponenti destroidi. Atteggiamenti xenofobi ce li hanno dentro molte altre persone, anche chi si crede progressista. Una lente colonialista ci allontana invece dalla tridimensionalità di Willy, lavoratore precario e ragazzo di provincia. La lettura del razzismo ha sovrastato possibili discussioni su questioni legate a problemi socio-economici del territorio di Artena. Etichettare i Bianchi come razzisti ha fatto sì che le istituzioni dei paesi coinvolti abbiano dovuto rispondere a una campagna informativa un po’ distorta. Ricordo che uscirono comunicati del Comune di Artena che mostravano quanto la città fosse stata in passato aperta ad accogliere i profughi, profughi eritrei in particolare. Che c’entra Willy, capoverdiano nato a Roma e trasferitosi a Paliano con i profughi eritrei?
Imputare la morte di Willy al razzismo di esponenti destroidi ha distolto l’attenzione dai problemi materiali di chi vive in condizione di immigrato in Italia. Luca Neves, nel sesto episodio, dice di rispecchiarsi in Willy in quanto ragazzo italiano, immigrato di seconda generazione, ed è certamente stato oggetto di insulti razzisti nella vita di tutti i giorni, ma sottolinea il fatto di sentirsi soprattutto vittima di una politica del lavoro razzista, fatta di discriminazione, per la quale ha avuto il suo primo contratto nelle cucine all’età di trentacinque anni.
Quale altra mistificazione della stampa ha suscitato in te indignazione?
AC: Per esempio, la notizia dei venti minuti di botte che ti porta in tutt’altra direzione. Un’azione di venti minuti ti fa parlare anche di omertà. Venti, quaranta secondi, invece, impediscono una risposta pronta da parte dei presenti. C’è stata da una parte la confusione dei ragazzi presenti, dall’altra molto paternalismo che ha descritto i ragazzi come la gioventù violenta, priva di valori, come se non ci fossero mai state risse nella storia delle generazioni precedenti. I dati mostrano invece che i reati violenti sono diminuiti e le risse notturne non accadono solo in provincia, sono anche l’altra faccia della movida borghese e turistica a Roma. Di quei locali si può dire tutto ma non che siano violenti; al più che sono posti noiosi. Anche focalizzarsi sulla movida è riduttivo. Il fatto è avvenuto dopo la chiusura dei locali, quando la serata era finita e quando i protagonisti della violenza più efferata vivevano altro dalla movida: una pseudo orgia in macchina.
Spesso il pestaggio di Willy viene accostato alle morti violente dei giovani di Alatri, paese non troppo distante da Colleferro, quella di Emanuele Morganti, nel 2017, e la più recente di Thomas Bricca, a gennaio 2023. Esiste, per voi, un legame tra i tragici avvenimenti e questa specifica realtà territoriale?
AC: Abbiamo preso come riferimento un lavoro di Daniele Vicari, regista che ha fatto un documentario su Alatri. Il territorio è un po’ diverso ma siamo sempre nella Valle del Sacco, sullo sfondo della deindustrializzazione, e questi esempi sono illuminazione della quotidianità che vivi. Il collante sociale è sempre lo stesso ed è la cocaina. Non tanto come consumo ma come possibilità di emergere e di fare soldi.
Questi eventi raccontano una parte di Italia, che è quella extraurbana, quella della provincia. Ti dimostrano come non ci sia un progetto politico e culturale ampio su questi territori; il vuoto istituzionale a volte esplode in una violenza che non va letta come sbandamento dei giovani di oggi, ma come una violenza contemporanea e stratificata, che ti fa capire come Alatri, Colleferro, Artena non siano borghi fuori dal tempo, ma vivono tutte le contraddizioni della contemporaneità.
C’è un Italia che cambia, che può essere Piacenza, Colleferro, Valmontone, che sono territori dei dintorni, cintura, in cui non è vero che il tempo si è fermato ma è vero che l’industria arretra. Colleferro è emblematica perché è nata prima come industria che come città, in un progetto industriale che prevedeva anche la vita fuori dalla fabbrica. Sull’eredità tossica lasciata dall’industria si innesta la logistica, progetti imprenditoriali grandi che sono un po’ feticci, non sono sviluppo. Questo è lo sfondo comune.
Un commento all’operazione neorealista di dare voce ai giovani di provincia, senza censure e senza purismi?
AC: È legata al fatto che c’era l’oralità di mezzo. Nelle parti orali neanche io mi sono corretto. Abbiamo lasciato anacoluti, sgrammaticature. Se riesci a consegnare quella frase o quell’immagine legata alla memoria del tuo amico in dialetto, anche se non è precisa grammaticalmente o non è stilisticamente giusta, non vuol dire che sia meno valida. A volte riesci ad esprimere di più in dialetto. L’intenzione non era quella di enfatizzare il dialetto, di renderlo macchiettistico, come avviene nel marketing territoriale, che accentua la calata delle nostre zone (la sonorizzazione delle dentali, ad esempio, la t che diventa d), al fine di riproporre lo stereotipo del ciociaro, del burino, visto solo come il campagnolo gretto. Qui quella voce ti racconta fatti importanti, fatti gravi. L’omicidio di un amico. Fatti che riguardano una generazione e un territorio. Sono voci che non si sentono mai.
Stabilimento Italcementi di Colleferro, 2015 ©Emiliano Toti
Murale di Ozmo in memoria di Willy a Paliano, 2023 ©Sara Ciprari