Narrazioni cinematografiche della persona grassa

Piggy VS The Whale

In copertina: Piggy e The Whale

 

Un confronto tra Piggy e The Whale

di Franco Cimei


 

Basterebbe l’apertura dei due film a tracciare una differenza sostanziale nel modo di parlare di una persona grassa al cinema. Charlie, il protagonista di The Whale, che troviamo sul divano mentre con difficoltà tenta di masturbarsi su un porno gay, improvvisamente rischia una insufficienza cardiaca e verrà salvato da un missionario religioso arrivato alla sua porta per caso. Nel film Piggy vediamo invece Sara che fa i compiti nella macelleria della sua famiglia (grassa) e guarda con invidia i compagni di scuola (magri e belli) flirtare tra di loro. C’è un cinema che pone delle domande scomode e un altro che da risposte accomodanti allo spettatore: siamo pronti a voler conoscere senza pregiudizi la vita di un uomo affetto da una gravissima obesità o preferiamo adagiarci sulle prevedibili dinamiche da teen-drama con cui è narrata l’emarginazione di una adolescente grassa da parte della sua comunità?

Piggy (Cerdita, “maialina” in spagnolo), conversione full-length dell’omonimo cortometraggio del 2018 della regista e sceneggiatrice Carlota Pereda, racconta la storia di Sara che vive continue vessazioni quotidiane nella provincia spagnola. Quando una serie di omicidi scuote la sonnolenza della sua cittadina, Extremadura, Sara si trova invischiata in un rapporto ambiguo con l’assassino e deve scegliere se salvare le ragazze che l’avevano sempre bullizzata o cedere al proprio risentimento.

Nel cortometraggio, ripreso interamente in una scena del film, vediamo l’incontro di Sara con il serial killer, che tiene in ostaggio nel suo furgone delle ragazze; la sua indifferenza nei loro confronti sembra configurarsi come una vendetta passiva. L’asciuttezza narrativa, la bravura dell’ attrice protagonista e l’ambiguità del finale lo rendono originale, riuscito.

Diverso è il risultato quando, per arrivare all’ora e mezza ordinaria per l’uscita in sala, la regista decide di espandere la narrazione e raccontarci i rapporti di Sara con i concittadini nella prima parte del film e lo svolgimento di quel dilemma etico a cui abbiamo accennato nella seconda, aprendo ai nuovi sviluppi narrativi fino alla resa dei conti finale con l’assassino. Vediamo così la quotidianità di una persona grassa, umiliata da una società bigotta che il film ci suggerisce di mettere a paragone con i crimini del serial killer. È la costruzione di una protagonista definita soltanto dal suo essere una vittima, incapace di rispondere agli insulti delle compagne, soffocata da una famiglia iper-protettiva, calpestata da pressoché chiunque.

Il riferimento è chiaramente ai rape-and-revenge degli anni ’70 (in cui da uno stupro della protagonista femminile si innesca una spirale di violenza che porta alla vendetta sugli aguzzini), declinati qui in un bullied-and-revenge sul body shaming. Tutta questa carica di frustrazione e impotenza, che come da schema classico dovrebbe esplodere nella violenza liberatrice finale, si interrompe però per una precisa scelta moralizzante della sceneggiatura: questo mondo non mi renderà cattiva, sembra pensare Sara quando sceglie di scagliarsi contro il serial killer per salvare le due ragazze rapite che fino a qualche minuto prima la stavano ancora coprendo di insulti.

Tutti nella comunità di Sara sono irreparabilmente malvagi; anche quando Pedro, il tipico chad, decide di aiutarla scopriamo che lo fa per un puro tornaconto personale e non esita a tradirla pubblicamente appena ne ha l’occasione. La madre di Sara dà la colpa di tutte queste vessazioni al corpo della figlia e come soluzione decide di metterla a dieta; persino la commerciante locale si rifiuta premurosamente di venderle delle merendine.

Tutt’altro che una figura positiva o almeno propositiva, Sara è un’impotente vittima degli eventi, passiva e irrisolta davanti al più classico dei dilemmi morali (il male subito giustifica la vendetta?) che è incapace di gestire. Non cambierà molto con la risoluzione finale, come non si trasformerà la protagonista alla fine del film, trasportata di nuovo verso una quotidianità che non sembra aver subito alcun cambiamento.

Lo stesso uso filmico del suo corpo finisce, nella messa in scena delle umiliazioni di Sara, per far risaltare lo stereotipo che il film evidentemente si proponeva di stroncare, un corpo grasso che genera ilarità nel suo rapporto con l’ambiente: Sara cade goffamente, tenta di nascondersi dietro una parete troppo stretta (scovata dalla madre, confessa di essere andata in cucina a rubare delle merendine), si muove faticosamente a carponi in un atteggiamento stealth che finisce per trascinare nel demenziale una prima parte che avrebbe voluto dare profondità e spessore alle sofferenze della protagonista.

Vittima dello stesso trattamento è la figura dell’assassino, caratterizzato soltanto dal tenere la pancia ben in vista con un gilet sbottonato, unico personaggio del film che sembra provare dell’empatia per Sara. Verrebbe da chiedersi se il serial killer si riconosca nei soprusi vissuti dalla protagonista, alludendo implicitamente quindi a degli episodi traumatici del suo passato, o se non sia semplicemente l’affinità fisica tra i due l’unica giustificazione plausibile di quello che sembra l’inizio di uno strano rapporto sentimentale: lui che fa trovare a Sara nella sua stanza le merendine che la cassiera le aveva negato, lei che si masturba pensando al killer.

Il finale esplicita il moralismo serpeggiante nel film: Sara, dopo un tentennamento iniziale, sceglie di uccidere il killer e salvare le due ragazze in ostaggio dopo che lui le aveva dato la possibilità di ucciderle per sanare i torti subiti. la final girl assume una sfumatura cristologica scegliendo di perdonare, con le due ragazze, quella comunità malvagia che aveva reso un inferno la sua vita fino a quel momento.

I due non fuggono verso la disperazione da una società inconciliabile come in Badlands di Terrence Malick. Prodotto di quella comunità che non la riconosce, Sara si fa sua insostituibile estensione e preme il grilletto per proteggerla dall’aggressione di un agente esterno: Il killer – unica forza capace di riscatto, di punire i colpevoli e rompere il cerchio della sopraffazione – viene infine neutralizzato dal sistema.

Anche qui un personaggio grasso, come nella quasi totalità del cinema, può essere raccontato solo nella marginalizzazione, comica o drammatica che sia, della sua fisicità. Cosa rimane di Sara oltre la discriminazione che fa di lei la società, e che come uno scalpello delimita i confini di un personaggio che altrimenti rimarrebbe semplicemente materia inerte? Soprattutto, è possibile raccontare la comunità in cui si trova a vivere una persona grassa come una morbosità totalizzante, una discriminazione cieca, banalizzando così delle problematiche sociali reali ben più complesse, ricondotte qui ad un semplice delirio collettivo insanabile?

Sara non è il personaggio che può ridare dignità a questa discriminazione evidente di tutto l’immaginario cinematografico perché di quella discriminazione, anche se in maniera speculare, in negativo, si fa principale portavoce. Non persegue un ribaltamento, come aveva fatto Coralie Fargeat in Revenge, in quel caso per lo stereotipo maschilista (sempre del rape-and-revenge) relegando l’uomo da aggressore a puro oggetto scenico, erotizzato per il sadismo del pubblico. Piggy finisce per additare supinamente come negativo tutto quello che mostra, ma non concede alcuna alternativa possibile a questa realtà che, sia attraverso la violenza che il perdono, è destinata a rimanere identica, arresa all’ingiustizia che la governa.

Se questo è il messaggio che sceglie di mandare un film autoproclamatosi nuovo baluardo della body positivity, sembra che le lotte per lo sradicamento della discriminazione continueranno ancora per molto tempo, perché questa ha ormai radici così profonde nel nostro immaginario che non è possibile altra narrazione se non quella da cui essa stessa si alimenta, accogliendone implicitamente i valori.

Differente il caso di The Whale. Il film, interpretato da Brendan Fraser che con questo ruolo si è meritato l’Oscar come miglior attore protagonista, generalmente ben accolto dalla critica cinematografica, ma tacciato un po’ ovunque di grassofobia, o comunque di non restituire una ricostruzione dignitosa del suo protagonista. Per la parte di Charlie, un professore affetto da grave obesità che vive segregato in casa, durante le riprese, Fraser ha indossato una fat suit, un trucco prostetico che ha lo scopo di materializzare l’obesità del personaggio.

Il film assume un tono moralmente neutro nel trattare l’obesità come una delle caratteristiche del protagonista, come lo è il vizio del fumo per l’infermiera, il fotografare i cani morti per la figlia, la religione per il giovane predicatore o l’alcolismo per la ex moglie. Le stesse dichiarazioni del regista Darren Aronofsky sull’utilizzo del trucco prostetico negano la necessità di una qualche reticenza nel trattare il tema dell’obesità: “abbiamo scelto di utilizzare una fat suit perché non abbiamo trovato nessun attore obeso in grado di gestire il carico emotivo del film”; non c’è l’intenzione di fornire rappresentanza di una minoranza discriminata e trascinare così una problematica artistica su un terreno prettamente politico, anzi, peggio, di decoro morale.

l personaggio di Charlie, con una comprensione tanto lucida quanto drammatica della sua condizione, prende coscientemente la decisione di morire e il cibo che ingrassa il suo corpo è lo strumento per raggiungere questo scopo; così il film decide di non affrontare l’obesità da una prospettiva sociale, ma da quella dell’autodeterminazione, o in questo caso dell’autodistruzione.

La società è assente in The Whale come per il suo protagonista, costretto tra le mura di un piccolo appartamento che abita a fatica: l’unico contatto possibile con Charlie è passare per la sua porta, per portare una pizza o tentare di salvare la sua anima.

Ci sono due balene nel film: una è quella che lo spettatore identifica con Charlie per la sua figura pingue, mettendo alla prova già il proprio moralismo con un epiteto quanto mai sprezzante e violento, complice tutta la comunicazione promozionale che ha accompagnato l’uscita in sala; l’altra è quella letteraria di Moby Dick, emblema dell’amore per la letteratura che nella sua leggerezza immateriale sembra farsi proiezione dell’interiorità del protagonista, zavorrata a terra da una vita ingiusta e incomprensibile, e capace di elevarsi soltanto tramite l’arte in brevi momenti di pura epifania. Anche la balena del capolavoro di Melville si sdoppiava tra ossessione e salvezza, condotta autodistruttiva o clausura spirituale che eleva dalle storture del mondo fisico, e così la narrazione del film procede in un’ambiguità inconciliabile che definisce i contorni di una figura dalla più profonda umanità.

Tutto è immerso in un disorientante chiaroscuro morale che fa oscillare i personaggi tra la repulsione e l’empatia che li lega a Charlie: li vediamo piangere incapaci di accettare il suo lento suicidio e subito dopo insultarlo e disprezzarlo senza pietà.

È in questo contesto che la strumentalizzazione da parte degli attivisti per la body positivity di un film come The Whale appare assolutamente fuori fuoco, e anche la polemica sull’utilizzo di una fat suit e non di un attore obeso non può che perdersi in sterili discorsi di quote e screen time, quando l’ambizione del film è analizzare la profonda umanità di un personaggio senza doverlo necessariamente incasellare nella categoria esteriore in cui finiamo per relegarlo noi spettatori colpevolmente convinti che proprio a quello si riferisca il titolo del film.

Charlie è quel personaggio che Sara non potrà mai essere: un proprietario esclusivo del proprio corpo e della propria esistenza fino anche all’autodistruzione, la discriminazione fisica non lo definisce e gli stereotipi finiscono per saltare, assolutamente incapaci di restituire anche solo una minima parte della sua complessità umana.

La condizione estrema della figura di Charlie lo fa apparire inadatto a qualunque tipo di rappresentanza e proprio questo ci può far riflettere se la rappresentazione che fa il cinema contemporaneo della diversità umana non sia semplicemente strumentale allo status quo, poiché dalle narrazioni che quest’ultimo crea nascono i personaggi che vorrebbero farsi portavoce di tali minoranze. Ogni forma di discriminazione non può che risiedere in una forma di semplificazione dell’esistenza umana, quell’esistenza che The Whale tenta di rappresentare nella sua complessità irriducibile, sovversiva, inconciliabile.

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