In copertina: foto di Garry Killian
Il male nelle Benevole di Jonathan Littell
Nel presente Maximilien Aue ha una moglie, due gemelli, una casa vicino al mare e un lavoro relativamente remunerativo in qualità di direttore in una fabbrica di merletti nel nord della Francia; un’esistenza tranquilla e convenzionale su cui cullarsi, adagiarsi e all’occorrenza annoiarsi senza conseguenze, un comodo guscio ironicamente contemplato, talvolta odiato, mai amato. Figlio del caos generale seguito alla fine della guerra, Aue si è fantasmaticamente costruito una nuova vita e una nuova identità, rinunciando a reclamare, anche quando avrebbe potuto, quella precedente. Rinunciare però non significa occultare o rinnegare. Quel tempo presente, stanco e ambiguo, dura a malapena venti pagine. Irrompe il passato, il ricordo lucido e scintillante nella sua convinta incoerenza. In questo passato Aue era un nazista.
Fratelli umani, lasciate che vi racconti come è andata.
Un sincero afflato narrativo mescolato a un verosimile senso di fratellanza umana vincola in maniera irreversibile il lettore alle memorie controverse di un uomo come tanti, forse come tutti, abitante ingombrante di quell’oltremondo interiore dove il confine tra morale e amorale è labile e sfumato. Chi legge si sporca le mani; chi narra, con le mani già sporche, se ne compiace, attore vanitoso e vanesio di un clinico monologo interiore, magnetico e scomodo. Quel che precede il racconto vero e proprio suona quasi come una dichiarazione di intenti, deterrente di giudizi o condanne, siano esse affrettate o tardive. Autore, Jonathan Littell, e narratore, Max Aue, conoscono le possibili e anzi probabili reazioni del pubblico, le prevengono e al contempo le stimolano come cartina al tornasole di una storia che lega inscindibilmente etica ed estetica.
Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione […] Forse avete avuto più fortuna di me. Ma non siete migliori.
Un rapporto tormentato, logorante e contraddittorio tiene insieme i piani stratificati di fruizione e narrazione del testo: narratore e pubblico, narratore con la sua peculiare interiorità, narratore e libro. Non c’è stabilità, ma una costante tensione centrifuga, una spinta disgregante esemplificata nella struttura stessa dell’opera. Opera che non è certamente unitaria e compatta, ma piuttosto ordito complesso e intrecciato di testimonianze, pensieri e riflessioni emotive, calate però in una realtà storica ben definita, accuratamente resa e descritta con voce neutra. Polifonia vocale che coincide con una polimorfia di stile, frutto di una penna camaleontica che si adatta alle pieghe aspre della personalità di Aue e ai vari contesti che si trova a vivere. Stile, velocità poietica, cromatismo insistente, soffio placido o respiro ansimante: a lenti e grigi inserti storico-descrittivi rispondono slanci pluriformi di onirica follia, iperboli allucinate, visioni di gesta riprovevoli che oscillano tra l’oggetto e il simbolo.
Alla fine, una notte, non potendo più resistere, uscì nuda dal palazzo, lasciando nel letto il cadavere del suo ultimo amante. Era una notte di tempesta, l’Oceano sferzava le dighe che proteggevano la città. Lei andò sul molo e spalancò la grande porta di bronzo fatta costruire da suo padre. L’Oceano entrò nella città, prese la principessa e ne fece la sua sposa, e si tenne la città sommersa come dote. Sogni e leggende d’infanzia incastonati nel flusso esperienziale del ricordo affiorano come fiori nel deserto, veicolano e comunicano l’indole macerata del protagonista, l’anelito insopprimibile a un piacere oceanico, la tendenza liquida verso un’esistenza totalizzante e senza confini.
Tale macrostruttura di simboli, tempi e colori contribuisce a creare una viva dialettica tra il romanzo e Aue, nell’ottica di un rapporto complementare che vede però il secondo prevalere sul primo: Aue giganteggia sulle Benevole, le plasma a sua immagine e somiglianza nella forma e nel contenuto, demiurgo nero di un racconto spietato ma onesto. Un paradigma creatore-creatura sbilanciato verso un creatore che tuttavia è allo stesso tempo creatura di un mondo da lui stesso concepito e abitato, imbevuto del sangue indistinto di vittime e carnefici: se il libro è un universo vasto e diegeticamente fluviale, Max Aue è il mare tempestoso che ne sommerge la superficie, che ne soffoca la varietà cosmica con la gravosa presenza di una personalità porosa e sgranata. Una forza di caos entropico, la costruzione tacita e spasmodica di un’identità impossibile da definire, che si legittima unicamente nella sua sistematica negazione. Come la passione per la musica.
Ascolto spesso musica, e mi piace moltissimo, ma non è la stessa cosa (di saperla suonare), è un surrogato. Proprio come i miei amori maschili […] senz’altro avrei preferito essere donna.
La femminilità latente è declinata da Aue tramite i due malsani legami familiari con Una ed Héloise, rispettivamente sorella e madre. L’ossessione incestuosa per Una costituisce sì la messa in scena di un’attrazione carnale connotata negativamente sin dal principio, topos letterario già battuto dall’antichità edipica e non solo; tuttavia, la simbologia associata alla donna ottempera ad una funzione più ampia, va oltre il mero oggetto di passione fisica: Aue ama Una perché vuole essere lei, ciò che si ritrova a desiderare non è altro che sé stesso, o meglio, il modello mentale prototipico di quello che vorrebbe essere. Una, nome significativo, è nucleo semantico della dimensione psicofisica del gemello, specchio d’acqua nel quale immergersi e toccare, al di là, la sublimazione della coscienza. Forse un narcisismo purissimo, innervato però dalla consapevolezza autentica del proprio (non) essere. Il brutale matricidio invece, di cui mai si dichiara la colpevolezza, è segnato da una patina opaca di allusioni e allucinazioni ricorrenti, uno di quei casi in cui i punti di vista, tanto interni quanto esterni al testo, si fondono l’uno con l’altro. Fusione che genera un inganno ai danni del lettore, empaticamente vittima di una distorsione subdola, un tilt morale dei neuroni specchio, una collusione magmatica. Sembra quasi che l’autore si sia divertito a tratteggiare un narratore interno alla storia, ma contemporaneamente inaffidabile e scaltro, abile esecutore di ammende false, utili a sfuggire al giudizio proprio e degli altri.
Dalla mano di Littell nasce anche quella che può essere a ragione definita come l’officina delle Benevole, ossia il saggio socio-antropologico Il secco e l’umido. Una breve incursione in territorio fascista (2009). Scritto prima del romanzo ma pubblicato dopo, il saggio tenta di ricostruire il profilo dell’uomo fascista mediante l’analisi del linguaggio e la natura delle sue paure. La base teorica del lavoro affonda le radici nello studio del sociologo e scrittore tedesco Klaus Theweleit, che si è a sua volta occupato della produzione scritta (La campagne de Russie, 1949) del fascista belga Leòn Degrelle. La sintesi è diretta: il fascista è il non completamente nato, colui che non ha contemplato il processo di distaccamento materno e di formazione completa dell’io personale. La vita interna ed esterna a questo individuo è governata da un piatto e uniforme principio ordinatore, il quale prova affannosamente a ricondurre ad una parvenza di rassicurante unicità la multiforme pluralità del mondo e dell’anima. Un io corazza, organismo impermeabile, compresso e represso. Tuttavia, lo stesso non è immune alla frantumazione, se il collante individuale che lo tiene insieme vien meno esso entrerà in crisi, divenendo vittima dei suoi stessi istinti, dei desideri furenti tenuti in cattività fino a quel momento dall’apatia del pensiero unico. Per evitare l’implosione il fascista proietta al di fuori le sue paure, le innesta su soggetti reali trasfigurati però in nemici immaginari, un atto di sclerotica esteriorizzazione. L’incontrollabile e l’incasellabile diventano minacce all’integrità fascista, tra esse primeggiano in particolare le forme del femminile e della liquidità, strettamente connesse e non a caso ricorrenti nel romanzo.
Poiché il fascista non può annientare totalmente la donna (ne ha bisogno per riprodursi), la scinde in due figure: l’Infermiera bianca (o la Contessa) bianca, ovviamente vergine […] e l’Infermiera (o la Prostituta) rossa, che il fascista per mantenere il proprio Io, uccide.
Paradosso apparente è che la genesi condivisa tra testo narrativo e saggio non porti a una completa sovrapposizione tra il tipo antropologico de Il secco e l’umido e il protagonista delle Benevole, le tesi saggistiche sono sì presenti, ma combinate e riviste liberamente da Littell, fuori da stereotipi troppo rigidi e distinzioni puramente dicotomiche; romanzo e saggio, due molecole chirali. Si considerino di nuovo le paure del fascista, Aue le trascende: la liquidità non lo limita affatto, bensì costituisce la sua essenza più profonda, il femminile, inter ed extra individuale, si profila come retroterra incerto e necessario di un’identità in perenne discussione. La madre soddisfa una pulsione di morte che esula dal ruolo di infermiera bianca-Contessa stabilito da Theweleit, similmente Una non è di certo assimilabile all’Infermiera rossa-Prostituta da eliminare con il calcio del fucile. Contessa materna, infermiera, amante, gemella specchiata, Una è il prisma temporaneo che più di chiunque rifrange su Aue una luce diversa, un ventaglio sentimentale riconducibile per un istante alla più candida delle affezioni.
Là i nostri giochi dilagavano nei campi, nei boschi di pini neri e nella vicina macchia, che vibrava al frinire delle cicale e del ronzio delle api della lavanda […] anche con quello dei fichi che divoravamo fino alla nausea […] Né l’una né l’altro specificatamente bambina o bambino, ma piuttosto una coppia di serpenti allacciati.
In un’atmosfera lirica e germogliante di umida, infantile, sensuale sensorialità, rievocando l’immagine fondativa dei serpenti allacciati (richiamo alla figura mitica dell’indovino Tiresia), si realizza la fusione androgina che rompe i confini dell’individuale storico, diluendoli nell’indefinito letterario che attrae e rivela. La rivelazione di un demone androgino, non un novello Macbeth come lo stesso aveva definito i suoi pensieri assassini, ma Macbeth e Lady Macbeth fusi insieme, complici discordi di una vita tormentata; Unsex me here scriveva Shakespeare, Aue lo pensa ma non lo grida. Le Benevole è dunque il romanzo di un fascista? Non solo, perché il soggetto narrativo scolpito da Littell compie un passo ulteriore, oltre l’Eichmann arendtiano e comico (o quantomeno ironico) di Gerusalemme, il quale visto giorno dopo giorno appariva non più come un mostro, ma era difficile non sospettare che fosse un buffone. Max Aue è un semi-eroe tragico, protagonista e antagonista che rappresenta il dramma del suo io anteponendolo a quello storico della guerra, frantumando la quarta parete e invitando il pubblico a salire sul palco con lui.
Il male banale di Arendt non era semplice retorica, ma un modo per disinnescare il potere che rende attraente il frutto proibito, i numerosi esempi di grandezza satanica offerti dalla letteratura incoraggiano l’autrice ad utilizzare un tono ironico che crea repulsione e non attrazione, scherno annoiato piuttosto che attiva partecipazione. D’altronde gli echi del male rimbombano proprio nelle tragedie, la commedia indebolisce, atrofizza alla radice il potenziale emotivo e fascinatorio del male. Aue, creatura ontologicamente letteraria, non è banale e Littell, nella coda postmoderna del dopoguerra antipoetico teorizzato da Adorno, gli edifica attorno un castello romanzesco di epica tragica, affidandogli a occhi chiusi la custodia e le chiavi.
Entità duali, speculari, entrambi sabbia e monolite.