In copertina: Just Stop Oil at National Gallery, 14 Ottobre 2022 (immagine di Just Stop Oil, sotto licenza CC BY-NC 4.0)
Dalla fine dell’arte alla fine del mondo: una lettura filosofica delle proteste ambientaliste nei musei
Il successo di un’azione di protesta viene giudicato di solito sulla base della reazione suscitata, ma non è detto che sia sempre evidente quale reazione sia quella più in linea con gli scopi di chi protesta. Lo scorso ottobre, per protestare contro l’inerzia della comunità internazionale di fronte al cambiamento climatico, due attiviste dell’organizzazione Just Stop Oil hanno lanciato della zuppa di pomodoro contro il dipinto di Van Gogh I girasoli, conservato alla National Gallery di Londra. Nel dibattito sui media e sui social network la gran parte dei commentatori non si è risparmiata toni di biasimo e disapprovazione. Pur mostrando di comprendere e condividere le preoccupazioni delle manifestanti, i critici hanno rimproverato loro non solo di mostrare scarsa considerazione per il patrimonio artistico condiviso, ma anche di aver scelto il bersaglio sbagliato per sensibilizzare il pubblico rispetto ad un tema, quello dell’emergenza climatica, che di controversie non ne dovrebbe creare. La protesta è stata giudicata ideologica (avrebbe subordinato il valore e l’autonomia dell’arte all’affermazione di principi ad essa estranei), sprovveduta (le attiviste non sarebbero consapevoli che l’autore stesso dell’opera si sarebbe alleato alla loro causa, se ne fosse stato a conoscenza) o addirittura controproducente (lo shock suscitato dal gesto avrebbe distolto l’attenzione da una battaglia sacrosanta). Tuttavia, invece di scoraggiare l’imitazione di questo tipo di azioni di protesta, lo sdegno del pubblico sembra piuttosto aver avuto l’effetto di spingere altre associazioni a seguire l’esempio di Just Stop Oil: se da una parte sono state imbrattate opere di Monet a Potsdam, di Van Gogh a Roma, di Warhol in Australia e di Klimt a Vienna, dall’altra gruppi di manifestanti si sono incollati a quadri di Vermeer a L’Aja, di Botticelli a Firenze e di Goya a Madrid, impedendone di fatto la normale fruizione. Di fronte a questa ondata di emulazione, viene il sospetto che le reazioni cercate dagli ambientalisti non siano di solidarietà o di comprensione, quanto invece di irritazione e disappunto. Reazioni mirate non tanto a dimostrare le proprie ragioni o a persuadere un pubblico, ma piuttosto a portare scompiglio tra i pregiudizi e gli automatismi degli osservatori, per indurli a mettere in discussione il loro punto di vista sulla questione sollevata.
Comprendere più a fondo le intenzioni dei manifestanti e il senso della loro azione richiede però di analizzare la loro performance, mettendo da parte qualsiasi residuo di giudizio moralistico. Così facendo, non ci si può non accorgere subito di due caratteristiche ricorrenti delle proteste. Innanzitutto, concretamente l’azione di disturbo dei contestatori non va tanto a colpire l’arte intesa in senso generale e onnicomprensivo, quanto solo un determinato tipo di opere d’arte, cioè immagini figurative inserite a pieno titolo nel canone della tradizione occidentale. Sebbene recentemente altri gruppi in Italia abbiano sperimentato anche altre forme di vandalismo verso edifici o sculture monumentali, originariamente gli attivisti di Just Stop Oil e i loro emuli diretti non si sono accaniti contro qualsiasi forma di espressione artistica: non hanno interrotto concerti, fatto irruzione sul palco di uno spettacolo teatrale, o danneggiato beni architettonici. In secondo luogo, è significativo che le immagini attaccate siano tutte immagini figurative, cioè quelle come i dipinti di Van Gogh che raffigurano scene e oggetti ben definiti, e non immagini astratte che non mostrano alcun oggetto riconoscibile, come possono essere dei dipinti di Pollock o di Rothko.
Quando perciò le contestatrici accompagnano il loro gesto con le parole “Che cosa è più importante, l’arte o la vita?”, ad essere chiamate in causa sembra essere l’arte figurativa, più che una qualsiasi idea di Arte tout court, con la A maiuscola. Anche nel caso in cui non si trattasse di una strategia scientemente ed esplicitamente perseguita, la scelta di limitarsi alle immagini rivela un aspetto significativo dei blitz ambientalisti. Aggredire le immagini infatti ha l’effetto di portare in primo piano il legame tra l’arte e il mondo reale; legame che assume una connotazione sinistra in un momento di estremo ed effettivo pericolo per quel mondo stesso. È un punto, questo, che rischia di essere oscurato dal riferimento astratto all’arte, e che per essere pienamente compreso richiede di spostare il baricentro della riflessione sulla natura e la funzione delle immagini. È interessante confrontare le contestazioni degli ecologisti con pratiche di iconoclastia o vandalismo contro le immagini che nella storia dell’arte si sono manifestate in molteplici forme, su iniziativa individuale o che promosse da gruppi e collettivi, contro immagini di un tipo specifico (ad esempio immagini sacre di divinità o immagini politiche di personalità di potere) o per principio contro tutti i tipi di immagini semplicemente in quanto tali. Tra gli esempi più significativi troviamo sono non solo i celebri movimenti iconoclasti bizantini, luterani o rivoluzionari, ma anche altre iniziative vandaliche individuali (analizzate in un recente articolo di Stella Succi su Not) come quella della suffragetta Mary Richardson, soprannominata “Mary the Ripper” per aver sfregiato alla National Gallery una Venere allo specchio di Velasquez, mossa dalla rabbia verso l’oggettificazione del corpo femminile da parte dello sguardo di artisti e spettatori uomini. Tradizionalmente, gli iconoclasti si accaniscono verso le immagini figurative in quanto esse fungono da rappresentazioni di oggetti del mondo. Oltre a questo, tuttavia, la furia degli iconoclasti è attirata anche e soprattutto da un’ulteriore caratteristica delle raffigurazioni, che le distingue da altri tipi di segni come quelli linguistici. A differenza delle parole, le immagini possono non solo rappresentare, ma anche rendere visibile l’aspetto degli oggetti che rappresentano. Proprio questa particolarità, che può dare l’impressione allo spettatore di essere in qualche modo in contatto con l’oggetto stesso, è ciò che l’iconoclasta vuole annullare dell’immagine. Se infatti una raffigurazione consente di visualizzare i connotati dell’oggetto rappresentato (ad esempio dei girasoli), il gesto di distruggerla, danneggiarla o oscurarla sottrae quei connotati alla vista, un po’ come spegnere la luce in una stanza. Imbrattare I girasoli di Van Gogh, ad esempio, non impedisce solo di apprezzare l’espressione del genio artistico dell’autore, ma anche di raccogliere informazioni sull’apparenza dei girasoli rappresentati (sono appassiti o in fiore? sono in un vaso o in un bouquet?).
Il dubbio che però il blitz ambientalista non sia da assimilare sbrigativamente ad un mero gesto distruttivo, dettato come altri atti iconoclasti da un autentico astio verso l’immagine, lo insinua l’osservazione di un paradosso insito nell’iconoclastia. Prendendosela con un’immagine, o con le immagini in generale, l’iconoclasta ottiene il più delle volte l’effetto di affermarne il potere, invece di negarlo e cancellarlo. Un’immagine infatti non è un attrezzo che si possa usare e gettare via una volta rotto o inservibile; come si è visto, è la rappresentazione di un altro oggetto. Distruggere un’immagine non comporta spezzarne il legame con l’oggetto rappresentato, poiché questo legame è una funzione che, una volta assegnata, non si riduce soltanto alla presenza o all’integrità materiale dell’immagine (ad esempio come dipinto o fotogramma o illustrazione). Se la sedia rotta su cui non ci si può più sedere smette di essere una sedia, l’immagine distrutta non smette di essere un’immagine: non sarà forse più visibile, ma non per questo smette di richiamare l’oggetto rappresentato alla mente di chiunque ricordi di averla vista in passato, anche solo per una volta. Al contrario, l’effetto dell’atto iconoclasta è spesso quello di riportare l’attenzione sulla funzione dell’immagine di rappresentare un oggetto, con un meccanismo simile al famoso “non pensare all’elefante!”. L’iconoclastia mostra quindi che agire contro un’immagine non è un gesto neutro; è piuttosto un gesto dotato di un suo significato, che attraverso la contestazione di un altro significato, cioè quello veicolato dell’immagine, finisce per ribadirlo e rimetterlo in circolo.
L’atto iconoclasta può quindi materialmente distruggere un’immagine, ma con questo non è in grado di cancellare il significato e il valore che essa ha in quanto rappresentazione. Gli attivisti ecologisti sembrano in effetti riconoscere che danneggiare materialmente un’immagine non implica disinnescarne il potere di rappresentazione. Come già sottolineato da Succi, una delle attiviste di Just Stop Oil responsabili dell’attacco ai Girasoli ha significativamente dichiarato, in un’intervista su Euronews, che per il gruppo la cultura e l’arte hanno decisamente un senso e un potere nella società del nostro tempo. Non è peraltro irrilevante che i danni provocati dalle dimostrazioni siano stati in tutti i casi minimi, se non nulli, e lo stato normale dei dipinti sia stato sempre facilmente ripristinato: la protesta non ambisce, come nei casi tradizionali di iconoclastia, a privarci definitivamente di un’immagine o a compromettere irrimediabilmente la sua esperienza. Ma quali sono allora le intenzioni dietro al gesto degli ambientalisti? Se la loro protesta non mira a neutralizzare la natura di rappresentazione propria dell’immagine, viene da pensare che, al contrario, voglia riportarla al centro del dibattito. Non si tratta di altro che di un blitz istantaneo, una sorta di flash mob che, attraverso un gesto di grande impatto come imbrattare un dipinto considerato capolavoro, vuole mettere in discussione il posto che la rappresentazione per immagini occupa nel mondo di oggi.
Le azioni degli attivisti mostrano come i due differenti piani dell’immagine come opera materiale e come rappresentazione del mondo sono inscindibili l’uno dall’altro. Questa idea è stata tematizzata anche dalle considerazioni del filosofo Edmund Husserl su quella che egli definisce “coscienza di immagine”, ossia l’esperienza offerta da un’immagine. Secondo Husserl, ogni immagine si mostra allo spettatore attraverso un’esperienza unitaria, che però sottende tre livelli saldamente integrati l’uno con l’altro, in una maniera del tutto peculiare rispetto a ogni altro tipo di oggetto esperibile. Questi livelli si possono individuare usando l’esempio dei Girasoli di Van Gogh. Il primo riguarda l’immagine in quanto superficie materiale fisicamente presente di fronte allo spettatore, come la tela variopinta conservata alla National Gallery di Londra; il secondo ci presenta l’oggetto visibile che appare allo spettatore guardando questa superficie materiale, ad esempio un vaso di girasoli (così come Van Gogh lo ha raffigurato), e che Husserl chiama “immagine-oggetto”; il terzo è il “soggetto”dell’immagine, cioè l’oggetto reale, non presente in carne ed ossa, di cui l’immagine è segno, ad esempio un vero vaso di girasoli. Non trovandosi materialmente di fronte allo spettatore, questo soggetto non è direttamente visibile in sé nell’immagine, ma piuttosto è reso presente dall’immagine in maniera mediata, attraverso le apparenze visibili dell’immagine-oggetto.
Nell’ottica delle riflessioni di Husserl l’azione di protesta degli ambientalisti va a disturbare proprio la compenetrazione dei tre livelli nell’unità della coscienza d’immagine. Il gesto mostra che, così come nessuno di questi livelli può sussistere separatamente senza gli altri, l’immagine non sussiste separatamente dal mondo reale. Il legame tra l’immagine e il resto degli oggetti del nostro mondo è duplice. Da una parte, il supporto fisico della tela rende l’immagine un oggetto fisico percepibile, il dipinto a cui attribuiamo valore come opera d’arte, esponendolo e conservandolo in un museo, in quanto espressione e risultato autentico dell’ispirazione e del lavoro di un autore. È il valore artistico del dipinto a rendere ancor più drammatico il gesto degli attivisti, e più efficace il loro messaggio: il clamore e lo scandalo non sarebbero stati gli stessi se ad essere imbrattati fossero stati un poster o una riproduzione dei Girasoli. Dall’altra parte, la funzione delle immagini di rappresentare oggetti assenti, cioè i loro soggetti, è quello che le rende dispositivi importanti per noi esseri umani. Proprio con questa funzione si sono misurate anche altre forme di protesta che, invece di aggredire l’immagine, hanno tentato di reinterpretarla e risignificarla, come nel caso degli attivisti che hanno messo in scena alla Pinacoteca di Brera l’immagine raffigurata dal dipinto La strage degli innocenti, ma in riferimento alle vittime della frana di Casamicciola. Le due dimensioni dell’immagine come oggetto materiale e come rappresentazione trovano un punto di congiunzione nell’immagine-oggetto che il supporto fisico rende visibile, e in cui riconosciamo le fattezze del soggetto rappresentato. Quando l’immagine va in blackout e non è più possibile vederla nella sua interezza, come ad esempio a causa di un atto vandalico, comprendiamo la sua natura di superficie materiale che permette di gettare uno sguardo su un altro oggetto non presente di fronte a noi.
Le proteste ambientaliste nei musei si possono intendere perciò non come contro le immagini, ma per le immagini, o meglio per aprire una discussione sul loro ruolo di fronte alle molte minacce concomitanti nel nostro tempo, per la nostra società così come per l’intero pianeta. Non si tratta di semplice sensazionalismo, ma di affermare il legame tra immagini e mondo. Alla luce di questo legame, possiamo leggere così il punto degli attivisti: se sono a rischio le cose fisiche, sono a rischio anche le immagini. La distruzione del mondo equivale alla fine della possibilità stessa dell’immagine. In quest’ottica, concentrarsi sul tema dell’arte o del danno causato ad opere artistiche può essere molto fuorviante. Svelando la natura dell’immagine come artefatto con funzione di rappresentazione, gli attivisti sfidano proprio una visione dell’arte come spazio sicuro, regno di valori e idee platoniche disincarnate, al riparo dai conflitti che agitano la realtà materiale. Non è casuale che nella sfera pubblica le reazioni siano state simili a quelle nel dibattito sulla rimozione di statue o monumenti legati ad un passato dai tratti oppressivi o coloniali. Anche in quel caso, di fronte alla contestazione, le risposte si sono spesso appellate alla protezione di una Storia o “Memoria storica” dal carattere museale, quasi antiquario, da non distorcere sulla base di nuove sensibilità emergenti. I monumenti però non sono semplici resoconti distaccati del passato, ma opere celebrative, realizzate in un determinato contesto concreto in risposta a determinate esigenze. In quanto tali, esse offrono un punto di vista, necessariamente parziale come ogni punto di vista, che può e deve essere messo in discussione qualora le esigenze che lo sostengono si modificassero o venissero meno. Allo stesso modo, le immagini non sono degli assoluti: esse rappresentano il mondo per come è possibile e desiderabile farlo in un dato momento, con i mezzi materiali a disposizione e secondo le intenzioni dei loro autori. Quando il nostro mondo fosse radicalmente sconvolto dalla crisi climatica, e quei mezzi e quelle intenzioni ne venissero a loro volta travolti, anche la pratica del fare immagini dovrebbe per forza cambiare di conseguenza. Ignorare questo fatto, e incaponirsi sull’intangibilità del pezzo d’arte da museo, sembra un classico esempio del proverbiale guardare il dito invece che la luna.
Le reazioni di irritazione sembrano quindi perfettamente funzionali alle intenzioni dei manifestanti di stanare coloro che cercano nell’arte un rifugio rassicurante e consolatorio, in cui non è richiesto prendere posizione. Imbrattare un dipinto di zuppa ci costringe a vedere, nella cancellazione dell’immagine, le conseguenze dell’inazione contro il cambiamento climatico. In questo modo, comprendiamo immediatamente come l’arte sia radicata nelle nostre vite tanto quanto tutti gli altri aspetti sociali e naturali della nostra esistenza, e non sia perciò risparmiata dalle stesse problematicità che toccano questi ultimi. Al contrario, deve necessariamente confrontarsi con le catastrofi del reale, perché questo significa confrontarsi con la possibilità della propria irrilevanza, o addirittura della propria definitiva scomparsa. Da questo punto di vista, le proteste ambientaliste si possono anche leggere come un gesto artistico a tutti gli effetti, che dà voce all’emergenza climatica in una maniera molto più disturbante di molti esempi di climate fiction o di arte cosiddetta “impegnata”. Attraverso la loro performance, gli attivisti sollevano questioni importanti sul ruolo di immagine ed arte di fronte alla prospettiva dell’estinzione e del tracollo sistemico: che ne sarà delle immagini, se non dovesse più esistere nessun mondo da raffigurare? Ha ancora senso trasformare il mondo in immagini artistiche di fronte al cambiamento climatico e alle disuguaglianze create dal nostro modello di sviluppo? A chi si potrebbe rivolgere quest’arte, chi ne potrebbe fruire? Rispondere a queste domande è una sfida che può essere raccolta solo da un’arte e un’immagine con una nuova e più profonda consapevolezza del proprio ruolo nel mondo di oggi.