Pedante q.b.

Immagine: dettaglio della copertina di Il pedante in cucina di Julian Barnes (Einaudi 2020).

di Niccolò Protti


Da poche settimane è arrivata in libreria la ristampa de Il pedante in cucina (Einaudi) di Julian Barnes, libro composto da una selezione di interventi sulla cucina che l’autore ha scritto per il Guardian. Il testo parte dall’iniziazione di Barnes al mondo della cucina (domestica), da quando aveva venticinque anni e il suo «piatto forte era la braciola di maiale con piselli e patate» a quando, una volta cresciuto, acquisisce la consapevolezza di essere «un pedante apprensivo» più o meno capace di destreggiarsi tra ricettari, utensili e ingredienti vari. Oltre questo, un lettore italiano in cerca di contenuti pseudo-gastronomici non trova molto: i riferimenti sono a libri di cucina perlopiù inglesi e le ricette di cui si parla sono, per la nostra cultura gastronomica, al limite della comprensione. 

C’è tuttavia un aspetto da tenere in considerazione e deriva direttamente dalle parole della quarta di copertina: il libro è descritto come «irresistibile» e «esilarante», elogiato per «l’acuta e raffinata comicità» con la quale è stato scritto. Non sono totalmente d’accordo. Il pedante in cucina sfoggia sì un vocabolario arguto e delle costruzioni ironiche senz’altro riuscite eppure, nel complesso, risulta un libro soprattutto triste e malinconico, capace di ritrarre una delle figure più ingrate che può abitare una cucina domestica: il pedante.

Barnes propone una duplice definizione del pedante:

un ostinato esecutore di ordini, dal palato felpato, che non si fa troppe domande, oppure un devoto determinato a eseguire ogni passaggio con assoluta precisione.

Ne manca una terza, a mio avviso, che scava in questi comportamenti militari e da fanatici e ne rende un’immagine caratteriale: il pedante è un infelice assicurato, una figura che non potrà mai soddisfare i propri desideri in ambito culinario, vittima proprio del suo modo di intendere la cucina. 

L’approccio del pedante di Barnes è quello del fallimento garantito, di uno schiavo su base volontaria delle altrui conoscenze, che pende dalle labbra del saggio a cui si affida. Si pensi anzitutto al libro di cucina. Quando il pedante sfoglia il ricettario appena acquistato – magari attratto da una copertina fiammante con in primo piano un piatto di pasta esteticamente appagante – non cerca solo una ricetta capace di salvarlo dall’ennesima cena a base di tonno e fagioli in scatola; il pedante cerca la verità, quella assoluta, la conglutinazione ultima tra indicazioni e risultato finale. In una parola, la perfezione. Ma il problema è uno e grandissimo: il pedante parte da un presupposto sbagliato, perché in cucina la perfezione non esiste e l’infallibilità della ricetta non è altro che una chimera.

Quando Barnes – in qualità di cuoco amatoriale e pedante – si domanda «perché un libro di cucina dovrebbe essere meno preciso di un manuale di chirurgia?», dietro l’apparente patina di retorica nasconde in realtà una richiesta di aiuto: se non si parla di millimetri, milligrammi e millilitri, io non so dove mettere le mani. (E l’accostamento chirurgia-cucina non regge: in chirurgia non si può sbagliare – pena conseguenze disastrose -, in cucina invece si può eccome.) Seguendo alla lettera una ricetta contenuta in un libro di cucina, cadere in errore è pressoché prevedibile: il pedante venera il Libro di cucina come il credente il proprio libro sacro; il punto è però che un ricettario non è né la Bibbia, né il Corano né un qualsiasi documento in cui credere ciecamente. In cucina non si deve temere di essere come San Tommaso, non si deve fare a meno di voler vedere per credere. La volontà del cuoco (amatoriale e non) che vuole cucinare bene e con criterio deve essere quella del provare, una sorta di “religione del tentativo” nel nome del metodo

La ricetta si mostra come il limite del pedante ed è il presupposto della sua infelicità. Scrive Barnes, a proposito degli chef, che loro

possono essere sperimentali e fantasiosi quanto si vuole […] ma sanno che un piatto, per essere il piatto da servire con orgoglio, deve essere creato con la massima precisione e il minimo margine d’errore.

Tutto corretto, tranne che per l’idea di fondo: gli chef non sanno le cose perché hanno la scienza infusa; gli chef conoscono i segreti del mestiere per via della loro esperienza, dei tentativi, delle ore passate a sperimentare e a combinare ingredienti. Gli chef hanno una ricetta che funziona per loro, in base agli strumenti che loro hanno a disposizione, con lo scopo di raggiungere il risultato che loro hanno in mente. In sostanza, loro non hanno una ricetta, loro hanno un metodo che conduce ad una ricetta.

Il sospetto è che Barnes abbia frainteso sia il concetto di pedante che quello di non-pedante. E se del primo abbiamo già detto, per quanto riguarda il secondo Barnes si esprime con queste parole:

un non-pedante […] può essere un semplice pelandrone, un “creativo” perso nel proprio mondo e vittima della peggior deriva autocelebrativa, oppure uno che sfoggia ragionevole sicurezza, che padroneggia la tecnica e conosce tutte le segrete armonie della cucina.

Oppure, aggiungo io, un non-pedante è molto più semplicemente qualcuno che vive meglio, qualcuno meno complessato, qualcuno che non necessariamente tende «ad adottare un’aria di superiorità» nei confronti della controparte. Barnes è categorico (e pedante) anche nelle proprie definizioni, e questa inflessibilità rivela un’insicurezza palpabile e fastidiosa. Ed è bene essere chiari: in cucina, essere insicuri, non è per forza un male. Può spingere ad essere precisi, assennati, a voler consultare fonti attendibili per trarre spunti e suggerimenti; tuttavia l’insicurezza diventa difetto quando paralizza le funzioni del cervello, quando la vena si chiude e rende rigidi, severi soprattutto con sé stessi e criticoni all’inverosimile nei confronti degli altri.

Il pedante in cucina è dunque qualcosa che forse non voleva essere: più utile che divertente, uno strumento di autoanalisi del nostro io vicino ai fornelli, tra i ripiani della credenza, mentre sfogliamo il ricettario. Nella speranza che ci si possa riconoscere non-pedanti (ed essere “salvi”) oppure, in caso contrario, prendere le distanze dai nostri comportamenti e fallire con la stessa curiosità degli chef.

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