La mia battaglia di Elio Germano è uno spettacolo ambiguo. Scenografia inesistente, l’attore parla direttamente al pubblico, passeggiando tra la platea, in abiti quotidiani. Il monologo inizia con discorsi sensati: “la situazione politica contemporanea è complicata, c’è bisogno di meritocrazia, in politica non vince il più bravo ma quello che sa parlare meglio, se fossimo in un’isola deserta come ci divideremmo i compiti? Come sceglieremmo chi deve fare cosa? Per alzata di mano? Quindi imitando il metodo parlamentare, facendo anche noi buoni discorsi? La democrazia è il sistema giusto?” – che mano a mano, in un flusso amichevole, creano con gli spettatori un contatto viscerale, che li porterà ad applaudire come a un comizio politico. Le parole piene di buonsenso e razionalità si scopriranno alla fine per quello che in realtà sono: la traduzione letterale e integrale del Mein Kampf di Adolf Hitler. La bandiera simbolo del nazismo viene proiettata sul fondo del palco, le luci si spengono, la svastica brucia.
Un’esperienza altamente coinvolgente, che presuppone il contatto diretto tra pubblico e artista, la presenza dal vivo come cardine della fruizione. Ma se non fosse così? Non mi è stato possibile assistere a La mia battaglia dal vivo, a teatro, eppure è bastato un visore ottico per la realtà aumentata.
Ho visto lo spettacolo al festival Andersen di Sestri Levante a inizio giugno, in una stanza non troppo grande, su una sedia che dava su un muro bianco. Un operatore mi ha spiegato come utilizzare il visore. Una volta “dentro” la mia amica seduta vicino a me è scomparsa, al suo posto una sala gremita, persone in vestiti invernali parlottavano in attesa dell’inizio. Per più di un un’ora a ogni spostamento dell’attore tra la platea corrispondeva una mia torsione sulla sedia, provavo a guardarmi le gambe: vedevo solo il sedile della poltrona. I pixel del video in alcuni momenti si sovrapponevano, testimoni della finzione. Straniata, alla fine, ho tolto il marchingegno dal viso e sono tornata alla luce e al caldo di giugno. La sensazione è stata quella di essere appena uscita da teatro, anche se qualcosa mancava.
Ma cosa restava incompleto? La mancanza di un luogo deputato alla rappresentazione? No, il teatro vive del guardare e dell’essere visto, indipendentemente dalla presenza o meno di un edificio teatro. L’impossibilità di avere un’interazione con gli altri spettatori? Forse, anche se giornalmente viviamo situazioni comunitarie in solitudine, basti pensare ai social network. L’impossibilità di scegliere il posto in platea? Quasi mai la scelta è libera, i posti a sedere sono nella maggior parte dei casi assegnati dagli operatori.
L’incompletezza dell’esperienza è data dalla novità che essa rappresenta. Nonostante lo spettacolo dal vivo preveda possibilità di errore e modifiche in corso d’opera, a livello qualitativo nulla viene meno rispetto a questo modo diverso di fruizione: rimane l’attore, lo spazio, la voce e la situazione. Anche se la rappresentazione viene fissata, il singolo vive ancora l’unicità del fatto teatrale. Mai uguale a se stessa perché il sistema di precondizioni ricettive varia a seconda di chi guarda e delle sue conoscenze. Resta il percorso di volontà dello spettatore: decidere quale spettacolo andare a vedere, uscire di casa per andare a teatro, acquistare il biglietto.
L’uso di attrezzature mediali non è un fatto del tutto nuovo. Il reality trend – genere nato all’inizio degli anni 2000 – porta uno spaccato di realtà sul palco, tramite la presenza di dispositivi tecnologici e di non-attori che, dimenticato il personaggio, interpretano semplicemente se stessi. Il reale, proprio per il fatto di essere riprodotto, viene scardinato fino a diventare tutt’uno con la finzione. Nella performance urbana Call Cutta (2006) dei Rimini Protokoll – collettivo svizzero nato dall’unione di Helgard Haug, Stefan Kaegi e Daniel Wetzel nel 2002 – lo spett-attore viene condotto per le strade di Berlino attraverso indicazioni che gli vengono fornite in cuffia da operatori di un call center di Calcutta, creando parallelismi tra la storia tedesca e quella indiana. Il dispositivo tecnologico diviene quindi oggetto cardine della creazione. Sovrapponendosi alla realtà, invece di rispondere aiuta a domandare.
Similmente ai meccanismi introdotti dal collettivo svizzero, in Bologna Lapsus Urbano // Dissenso Unico della compagnia Kepler 452 lo spettatore viene eterodiretto in cuffia da una drammaturgia sonora che racconta com’era Bologna e come è diventata. Tramite un rapporto sentimentale e intellettuale con il paesaggio vengono dischiusi scenari nuovi e imprevedibili, che obbligano a ragionare sia su che cosa voglia dire abitare un luogo sia su che cosa voglia dire abitare il luogo-Bologna, città di passaggio per studenti, artisti, attivisti e sognatori. Le cuffie diventano il mezzo con il quale creare un diretto rapporto con il pubblico che, isolato ma contemporaneamente unito, vive un’esperienza simile a quella cinematografica. La colonna sonora che lo culla, infatti, ha un rapporto di senso con la città che, messa sotto una lente di ingrandimento, diviene un set scenografico vivo.
La possibilità di vedere spettacoli già andati in scena in VR fa parte del grande contenitore del Reality Trend, ma se ne discosta: la tecnologia non è l’oggetto che rende possibile la creazione, ma si limita a fare da tramite. Il visore non crea lo spettacolo, ma permette la fruizione a un largo pubblico che non ha avuto la possibilità di vederlo live.
Ciò che si modifica è la concezione stessa di esperienza.
Con la nascita del web 2.0 si è modificato il senso stesso dello stare su internet: non più passivi, gli utenti hanno avuto accesso alla possibilità di creare contenuti. Oggi questa opportunità è data per scontata, eppure influenza sensibilmente non solo il nostro modo di stare su internet, ma la nostra stessa vita comunitaria. La necessità di partecipare attivamente alla vita pubblica è diventato qualcosa a cui non poter rinunciare: i sondaggi su Twitter, le dirette Facebook, i profili Instagram fino ad arrivare alla piattaforma Rousseau pentastellata collegano indissolubilmente il fare al creare. La performance, che è sia doing che showing doing, è un concetto applicabile a ogni aspetto dell’esistenza.
Quella in cui siamo immersi non è più la dimensione dell’esperienza dal vivo, ma un permanente ecosistema mediale, attraversato da flussi narrativi e esposizioni di senso che non sono divisi tra esperienza dal vivo e esperienza mediata. Non spettatori ma audience: il pubblico non occupa più un ruolo specifico, continuando però a esperire qualcosa di altrettanto reale che non comporta necessariamente un luogo fisico. Lo spettatore sarà in grado automaticamente di accettare e utilizzare questo nuova modalità di fruire l’atto performativo, rinnovando continuamente il patto rappresentativo: sono a teatro e sto guardando uno spettacolo.
Sarà questo il futuro del teatro? Sì, o meglio lo sarà forse più dal punto di vista dei metodi di archiviazione. Il rischio di questo tipo di operazione è quello di dimenticare quale materia si sta trattando. La rappresentazione, in quanto organismo mobile e multifocale, obbliga a una cura particolare. La realtà aumentata non necessita del montaggio per mantenere un’unità di senso – a differenza degli spettacoli adattati per la televisione o semplicemente registrati per essere studiati – permettendo una visione più integrale e vicina a quella originale.
Resta il fatto che l’oggetto VR potrebbe aiutare ad ampliare il pubblico appassionato al teatro, coinvolgendo anche chi non è interessato strettamente al performativo e offrendo una pratica nuova e accattivante. Rimane però un dubbio: se l’interesse per il teatro non è più il centro dei motivi della visione, si può parlare ancora di teatro?