Non appena l’idolo di legno varcò le inespugnabili mura di Ilio, Cassandra impazzì. Apollo le aveva sputato in bocca la condanna a rimanere per sempre inascoltata, così nessuno le credette in quella notte di sventura e delirio. Tutti si abbandonarono agli eccessi più scandalosi, al deliquio più sfrenato e osceno. La sacerdotessa già vedeva gli achei partoriti dal ventre avvelenato del cavallo, i troiani trafitti uno a uno nelle tenebre, le fiamme alzarsi altissime sulla loro civiltà.
Sembra che ciclicamente, nello svolgersi delle ere, un folle con una lanterna in mano irrompa nella confortante quiete del mercato, illumini il presente e lo veda bruciare. È un tropo che torna, oggi e ancora, anche in La nostra casa è in fiamme (2019), il libro che Greta Thunberg ha scritto assieme ai suoi genitori per dare forma a un paradosso: se “la vostra casa è in fiamme, non vi sedete a parlare di come potrete ricostruirla per bene quando avrete domato l’incendio”.
«The Planet is on Fucking Fire!», Bill Nye
Anni fa, la stessa metafora ignea ardeva tra le pagine de La scommessa della decrescita (2006), di Serge Latouche: “guardiamo altrove, e intanto la casa continua a bruciare”. Ce la iniettassero nelle vene, la verità del fuoco, impazziremmo tutti di paura. È per questo che preferiamo rimanere immersi in un’ignoranza protettiva, liberarsi dalla quale richiede di oltrepassare una soglia impalpabile.
È l’attraversamento di un confine invisibile e privo di ritorno: Greta Thunberg lo attraversa il giorno in cui a scuola proiettano un documentario sull’isola di plastica galleggiante al largo dell’Oceano Pacifico. L’immagine si conficca nella mente e da lì comincia a spandere una luce lugubre su tutto ciò che prima scivolava senza intoppi: ‘a pranzo c’è un hamburger ma [Greta] non riesce a mangiarlo. La mensa è piccola e calda, il rumore è quasi assordante e all’improvviso quei pezzi di carne unti nel piatto non sono più cibo, ma muscoli tritati di un essere vivente”. Lei “piange e vuole andare a casa ma non può, perché lì in mensa bisogna mangiare animali morti […]. Bisogna riempirsi il piatto di cibo, dire che fa schifo e toccarlo un po’ prima di buttare tutto nel sacco dell’immondizia”.
Come per La vegetariana di Han Kang (2016), la nevrosi che nasce dall’ipersensibilità ecologica di Greta si manifesta inizialmente nell’incapacità di ingerire: a tavola “lecca, succhia e mastica bocconi piccoli piccoli”, con una lentezza esasperante. I suoi genitori annotano quantità e durata dei pasti su una lavagnetta: “Pranzo: 5 gnocchi. Tempo: 2 ore e dieci minuti”. L’inedia diventa il riflesso corporeo di qualcosa di più profondo e celebrale, che in una precedente MEDUSA è stata definita “depressione da Antropocene”: è la crisi ambientale che si tramuta in disturbo della psiche, il cambiamento climatico che arriva a inquinare l’universo mentale delle persone.
“Io sono solo una messaggera”, scrive Greta come una moderna Cassandra nel suo libro – in realtà molto modesto e un po’ troppo raffazzonato, comunque utile a sistematizzare la genesi tumultuosa del più grande movimento ambientalista di tutti i tempi. Il merito principale del libro è forse quello di aiutare a rendere più visibili le cause della crisi ecologica che ci monta attorno, secondo diversi gradi di aberrazione: ‘una stanza d’albergo con l’aria condizionata in una metropoli rovente. Un centro commerciale con quattrocento negozi. […] Un supermercato con prodotti provenienti da ogni angolo immaginabile del mondo”.
La prima persona a essere contagiata dall’ecofania di Greta è sua madre, che scrive: “sul volo di ritorno [dal Giappone] ho passato un’intera giornata a guardare dal finestrino la Siberia e il Mar Glaciale Artico, mentre il canto monotono dei motori dell’aereo dava prova del suo piccolo ma fondamentale ruolo nella liberazione dei gas serra della tundra, rimasti intrappolati per millenni nel sonno del permafrost”. Atterrata in Svezia, la donna si risolverà a non volare mai più, vittima anche lei del flygskam, la “vergogna di prendere l’aereo” che Greta ha indotto in molti suoi connazionali da quando ha cominciato a scioperare per il clima. Ma l’effetto Greta ha contribuito anche alla recente dichiarazione di emergenza climatica e ambientale in Regno Unito e Irlanda, a Vancouver e Oakland, a Basilea e Costanza.
Sembrerebbe una notizia da festeggiare, se non fosse per chi sostiene che la giovane attivista svedese sia solo l’uomo di paglia delle lobby ecocapitaliste Climate Reality Project e We don’t have time di Al Gore, ex candidato alle presidenziali americane e autore del docu-libro Una scomoda verità (2006). I due si sono certamente conosciuti, anche se Greta ha smentito a più riprese ogni legame con i progetti di Gore. Ad accomunarli vi è senza dubbio la convinzione che il ricorso alla paura possa riuscire a scuotere le coscienze sulla via dell’ecologia, proprio come è accaduto alla stessa Greta, e come Gore sperava accadesse ai lettori-spettatori di Una scomoda verità.
Gore compare anche in Factfulness (2018), il libro che Hans Rosling ha scritto assieme al figlio Ola e alla nuora Anna: “dobbiamo seminare la paura! mi disse Al Gore durante la nostra prima conversazione su come spiegare il cambiamento climatico”. Era il 2009 e i due si incrociarono nel backstage di una TED conference a Los Angeles. ”Al Gore mi aveva chiesto di aiutarlo e di usare i grafici a bolle della Gapminder per mostrare il peggiore impatto possibile di un costante aumento delle emissioni di CO? in futuro”. Nonostante l’apprezzamento reciproco, Rosling preferì non prendere parte a una tale “pedagogia della catastrofe”: ”Al Gore insistette perché usassi spaventosi grafici animati che andassero oltre le previsioni degli esperti, finché chiusi la discussione dichiarando: Signor vicepresidente. Niente numeri, niente bolle”.
Anche Factfulness è un libro rabberciato, che i Rosling cominciano a scrivere poco prima che Hans riceva la diagnosi di un fatale tumore al pancreas. Nella corsa contro il tempo per finire il libro, sfuggono alcune patenti ingenuità: “coloro che temono il cambiamento climatico dovrebbero smettere di spaventare le persone con ipotesi inverosimili. Quasi tutti sono già al corrente del problema e lo riconoscono. Insistere è come sfondare una porta aperta”.
E ancora: “il cambiamento climatico è un rischio globale troppo importante per […] essere lasciato ad approssimative proiezioni pessimistiche e a profeti apocalittici”. Profeti come i Thunberg, che avvertono l’accusa e la rimbalzano al mittente: “leggiamo Factfulness […]: per molti aspetti è un testo straordinario, ma nemmeno lì la crisi climatica e della sostenibilità emerge come particolarmente grave”.
È come se una ragnatela di implicazioni equivoche cingesse assieme i due libri, ognuno specchio della verità dell’altro. Spogliandone le pagine come fossero di un unico volume, rimane fortissimo il dubbio che una paura sufficientemente grande da svegliare il mondo – ma non abbastanza da schiacciarlo – sia il solo sentimento in grado di condurci alla verità della crisi ecologica. È un’ipotesi che ha sedotto molti dei più raffinati teorici dell’Antropocene, come lo stesso Latouche (“solo una catastrofe concreta può aiutare ad aprire gli occhi”) e persino Timothy Morton, che in Iperoggetti (2018) scrive: “ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno è un adeguato livello di shock e ansia per uno specifico trauma ecologico – anzi, il trauma ecologico della nostra epoca, lo stesso che definisce l’Antropocene in quanto tale”.
In attesa di capire se saremo noi a governare un tale “trauma ecologico”, o se sarà piuttosto questo a governare noi, dovremo imparare velocemente a difenderci dalla disinformazione anti-ambientalista e, al contempo, dalle lobby dell’economia verde. Ma è meglio parlarne un’altra volta: ora c’è da scioperare per il clima.
*** Questo articolo è apparso nel numero quarantuno di MEDUSA, una newsletter bisettimanale a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.