Una lingua tutta rotta

In copertina “People Letting Loose” di Mercedes Helwein

di Pierpaolo Lippolis


La straniera è il romanzo-autobiografia di Claudia Durastanti: figlia di genitori entrambi sordi, cresciuta fino all’adolescenza con la famiglia emigrata in America, poi trasferitasi con la madre in un paesino della Basilicata. E ancora, giovane donna che studia antropologia a Roma, con prime esperienze lavorative e il conseguente trasferimento a Londra.

Quando ho iniziato a leggere La straniera ho pensato subito a Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg, altra autobiografia centrata sulla famiglia. Alla fine della lettura mi sono posto una domanda: quando in Italia una scrittrice o uno scrittore restituiscono un ritratto di una famiglia è sempre possibile intravedere una composizione, un’inquadratura e un certo pulviscolo luminoso fotografati da Natalia Ginzburg in Lessico Famigliare?

Una domanda molto simile, l’aveva già posta Christian Raimo in una recensione su un altro romanzo recente, Addio Fantasmi di Nadia Terranova: «quanto esiste un canone Ginzburg nella narrativa italiana, meno evidente?»

Raimo, nella recensione, suggerisce che Addio Fantasmi, romanzo non autobiografico ma con un io narrante in prima persona che ammicca all’autobiografia, «si potrebbe raccontare come il lessico famigliare di Ida», la protagonista, ma cosa permette ai romanzi di essere accostati? La natura autobiografica, o invece l’accento su espressioni, parole e coloriture linguistiche proprie dei nuclei famigliari raccontati? Oppure entrambe?

Nell’avvertenza alla lettura di Lessico Famigliare, Ginzburg sottolinea che «luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali», salvo poi aggiungere che «benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare». Claudia Durastanti dice a un certo punto di La straniera che «l’autobiografia è la bastarda dei generi letterari, perché abbassa la soglia», poi aggiunge che «l’idea di farci importanti in un’autobiografia pare sporca e torniamo a nutrire sospetto verso il genere, anche se contribuiamo a rafforzarlo e a renderlo collettivo ogni giorno».

Ginzburg nel suo racconto si eclissa («non avevo molta voglia di parlare di me») ma il mondo piccoloborghese e novecentesco che racconta passa tutto attraverso il filtro del suo io, apparentemente remissivo e discostato. Vi è sempre come una delicata forma di scusa, nel momento in cui un’autobiografia si pone come romanzo, sia in un caso che nell’altro, eppure il libro di Ginzburg che più ha impressionato la memoria collettiva, su tutti gli altri, è proprio Lessico Famigliare.

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Ma l’elemento più a fuoco nello scatto-racconto autobiografico della famiglia Levi è la lingua: il codice linguistico in grado di legare e tenere a sé tutti i componenti della tribù.

Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. […] Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità famigliare, che sussisterà finché saremo al mondo.

Se si sceglie di compiere una ricerca di romanzi che possano inserirsi nel canone ginzburghiano “meno evidente” – perché soffuso, non sempre palesato a priori – l’ottica da adottare sembra essere proprio quella del lessico, prima ancora dell’io narrante.

Nel lessico della famiglia di Durastanti c’è come un’urgenza di stabilire un confine tra la lingua adottata e la lingua madre, considerata la condizione di nonni e zii, che vivono a Brooklyn.

[La nonna] Non capiva tanto bene l’italiano e parlava un dialetto volontariamente buffo: diceva “Bruclì” invece di Brooklyn, “aranò” al posto di I don’t know, la “bega” stava per bag e “porchecciapp” per pork chops. […] In realtà sapeva benissimo qual era la pronuncia inglese e si rifiutava di usarla: le piaceva essere presa in giro, era il suo modo di rivendicare una personalità.

Qui, nel lessico proprio della nonna, l’influenza ginzburghiana è evidente (echeggia la nonna di Lessico Famigliare, che «usava sempre ripetere le stesse cose due o tre volte. Diceva: – Quell’infame Fantecchi che m’ha fatto fare il vestito marron! volevo farlo blu! volevo farlo blu!»). O anche nel momento in cui la protagonista, tornata a vivere con la madre in Italia, racconta dell’impatto con le scuole del paesino:

Ho imparato a leggere e scrivere in italiano, ma la mia lingua conteneva sempre un margine di errore che faceva ridere gli insegnanti. Dicevo “stiro da ferro” invece di “ferro da stiro”, “bega” invece di “busta”.

In Basilicata si scontra con l’esistenza di un dialetto crudo, che i ragazzini con cui gioca continuano a usare in sua presenza. Parole come b’scun, sasso, maccatur, tovagliolo, salicréc, lucertola, le ripete così: biscun, maccaturo, saligreca, sentendosi dire: “lascia perdere, non è per te.” Le stesse parole «se provavo a ripeterle a casa mio fratello mi dava un pizzicotto; mai parlare in dialetto era un’altra regola.»

Dove il fratello gioca un ruolo chiave nel discorso sulla lingua, perché «tra nonni immigrati che usavano una lingua tutta rotta» e i genitori sordi, la prima lingua pura che la Claudia-protagonista ha imparato è «l’italiano di un ragazzino di sei anni più grande di me, melodico e privo di intoppi, difeso con ostinazione».

Il lessico non è però soltanto riportato, ma è centrale anche nel modo in cui viene riflettuto e osservato. I genitori stessi, entrambi sordi, alimentano una riflessione sulla lingua, fatta di intoppi e confinamenti. La prima immagine con cui si apre il libro è quella del loro primo incontro, che è anche una scena di salvataggio, raccontata però in due versioni: in quella della madre, è lei a salvare il padre dal tentativo di suicidio da un ponte, in quella del padre, è lui a salvarla da un’aggressione. Lo scollamento tra le due versioni è un ascendente che investe l’intera struttura del libro. I genitori rappresentano una differenza, uno scarto rispetto al lingua della figlia.

Tutti e due interpretano la vita come un fatto e si attaccano alle parole per quel che sono, ma sono anche sospettosi come lo sono tanti sordi […] per i miei genitori una rosa è davvero una rosa è una rosa, davvero?

O come quando scrive: «ho sempre pensato che la sordità fosse un ostacolo per il loro pieno apprezzamento del linguaggio figurativo» laddove la sua vita da scrittrice «dipende dall’ironia e dalla metafora». Il senso di distanza è acuito, inacidito per contrasto sulla lastra fotografica per essere messo in evidenza: se «la separazione riguarda ogni figlio», allora la sua «avviene per inflessioni e figure retoriche inacessibili; ogni ironia ci separa, ogni metafora ci allontana».

Nel mio lessico famigliare tutto veniva fuori per ferirsi, invece si potevano dire cose per quel che erano, senza lasciare segni o menomazioni.

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Quando la protagonista dice che «ogni vantaggio l’ho conquistato e perso con il linguaggio», sa bene che la postura e la maniera di stare al mondo dei genitori è di tutt’altro tipo: loro, protagonisti dei loro drammi, sia personali che di natura sociale (sono accurate e bellissime le pagine in cui riflette sulla limitatezza della traduzione da suono a sottotitoli), «restavano in comunicazione con gli astri superiori e le sostanze ingovernabili».

La disabilità dei genitori, raccontata senza alcun filtro e alcun luogo comune, è uno strumento di indagine della realtà: un varco entro cui passano, non solo l’identità della scrittrice stessa, ma anche le problematiche di classe, la marginalità come violenza subita, e allo stesso tempo, la possibilità che il resoconto di queste non sia mai edulcorato, né vittimistico. La stessa scrittura di Durastanti ne appare come influenzata (Sul Sole 24 Ore Simonetti afferma che Durastanti «scrive in un italiano-non-italiano, un broken italian privo di anglismi ostentati ma strutturalmente alieno») e proprio nelle soglie e nelle fratture si sprigiona la sua energia narrativa fondata su un linguaggio, o meglio un insieme di linguaggi, che si fa geografia. E come ogni territorio presenta così altitudini, impervietà, confini e distanze, di cui si può essere appartenenti e allo stesso tempo stranieri.

A guardare il modello ginzburghiano vi è così una sottile differenza nell’utilizzo del lessico, perché dove quello della famiglia Levi compatta e riunisce («una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta fra milioni di persone») quello della famiglia di Durastanti rende palesi le difficoltà di incontrarsi in un luogo comune.

La dispersione della famiglia, la fine dell’istituzione familiare, veniva intravista da Natalia Ginzburg proprio nel Michele (coetaneo dei genitori di Durastanti) di Caro Michele, suo romanzo epistolare del ’73. La storia era raccontata lì dal punto di vista di una madre che non riesce a tenere unito il nucleo famigliare, dissipato dal figlio. A raccontare l’esito di quella stessa generazione oggi c’è invece la figlia straniera, che raccoglie i detriti («altre spiagge che mi fanno pensare alla mia famiglia. Dead Horse Bay è una baia paludosa un tempo circondata da mattatoi dei cavalli, inceneritori della spazzatura e fabbriche») e racconta la storia di una famiglia, sì schizzata a diverse altezze geografiche e divisa, ma che non deve proclamare la sua fine.

Quando Durastanti, nelle ultime magmatiche pagine del libro, racconta la fine di un amore, dice: «un giorno ho iniziato una conversazione e non ho più smesso. Potevo venire da qualsiasi punto della terra, essere un alieno condannato all’incomprensibilità, poi ho iniziato a parlare e qualcuno mi ha ascoltato».

L’amore vissuto come linguaggio definisce tutto il tracciato di La straniera: una lunga lettera d’amore a se stessa e ai suoi famigliari che cerca di superare ogni barriera e che incappa inevitabilmente, sempre e comunque, nel senso di estraneità.

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