Metallo urlante

di Marco Inguscio 


Se come me faticate ad andare a letto presto, avrete notato pure come sia raccomandabile evitare la visione di certi tipi di film quando vi trovate a ridosso della fodera del cuscino. La serie “Love, Death & Robots” di Netflix è una di quelle in grado di disturbarvi il sonno, scatenarvi incantesimi di caccie psichedeliche e paralizzarvi con bisbigli sovrannaturali. L’antologia, con la supervisione di David Fincher e il regista di “Deadpool”, Tim Miller, ospita diciotto cortometraggi, ibridi di fantascienza e fantasy disegnati da altrettante squadre di animatori ingaggiate in giro per il mondo. Il risultato è quello di gustose pillole ad alta dose di stimoli visuali, dai sei ai diciassette minuti, che variano in tono, genere, contenuto e stile. Love, Death and Robots condivide molto poco con l’altra antologia di fantascienza trasmessa da Netflix, “Black Mirror”, ma se c’è una cosa che questo prodotto ha dimostrato, non è tanto la subalternità con la serie inglese, o l’apertura a soluzioni tecniche diverse, ma che c’è ancora molto, moltissimo spazio da esplorare per lo storytelling di fantascienza.

Love, Death, Robots sembra la versione raffinata e in CGI di “Heavy Metal”, film d’animazione del 1981, basato a sua volta su “Métal Hurlant”, raccolta francese di fumetti a metà tra horror, erotismo e fantascienza, in voga negli stessi anni. A tratti in effetti ne riprende lo stile un po’ assurdo di eroine barbariche cavalcanti dinosauri in succinte armature di pelle, alieni e androidi iper sessuati, vagabondi interstellari affetti da bigorexia e armati di pistole laser. Sembra dirigersi quindi ai fan di una particolare sottocultura del genere che in Italia trovava sfogo nelle opere di Lanciostory e Skorpio.

Dal canto suo, Black Mirror ha raggiunto una reputazione tale da collocarsi tra i migliori prodotti seriali di sempre. Nella sua prima stagione, Charlie Brooker ha dimostrato talento nella costruzione di mondi spaventosamente vicini al nostro, in cui una tecnologia apparentemente amica fa deragliare il patto sociale tra gli uomini, pervertendone i valori. LD&R sta riscuotendo un discreto successo, sembra funzionare bene come esca per il pubblico del genere, anche se le due serie operano su idee diverse riguardo a ciò che la fantascienza debba fare. LD&R si preoccupa assai meno del metterci in guardia dalla nostra arrogante superficialità tecnologica, allarga il panorama narrativo e usa la fantascienza come sfondo per storie spassose, elettrizzanti, caratterizzate soprattutto da una maggiore vena ironica, specie rispetto alle ultime produzioni americane di Black Mirror, un po’ appiattite sulla visione distopica.

LD&R immerge lo spettatore nell’iperbolico immaginario dei corti, in alcuni casi molto ben riusciti. “Fish Night” ci porta a due rappresentanti di commercio, bloccati durante un viaggio da un guasto meccanico nel mezzo di un deserto dell’Arizona. I due vivono una fluorescente esperienza allucinatoria in compagnia di fantasmi preistorici e sull’onda dell’entusiasmo qualcuno finirà per divenirne parte. “Zima Blue” invece (Cimabue chissà), è la storia di un artista schivo ed enigmatico che lavora da recluso alla sua ultima opera, dopo aver raggiunto un’enorme fama grazie a installazioni colossali. Zima esporrà l’essenza della sua ricerca artistica e (non)umana, con un sacrificio che dimostra quanto possa rivelarsi elementare l’appagamento di un’esistenza sensibile. “Helping Hand”, è un concentrato di tensione e raffinatezza grafica. In questo corto una missione spaziale subisce uno sfortunato sabotaggio e costringe l’astronauta a una scelta che ricorda James Franco in “127 Hours”.

In quei diciotto episodi troviamo però molti risultati meno entusiasmanti. Un giovane Hitler che soffoca nella gelatina, o uno yogurt senziente che abbandona il pianeta terra per l’esplorazione interplanetaria, valgono come pausa caffè. “Good Hunting”, recupera il tipico concetto del mostruoso giapponese, entità non sempre malvagie, non interamente buone, la metamorfosi uomo-animale (così come avviene pure in “Shape-shifters”) alla quale si sovrappone la conversione in cyborg femminino; in un sud est asiatico dall’urbanistica steampunk, la donna è ancora vittima dell’oggettivazione sessuale, e per vendicarsi deve ricorrere alla macchina assassina. In “Aquila Rift” la percezione della realtà è dominata da una aracnide aliena confinata alla periferia dell’universo, e se questo è quanto le scene soft porn risultano abbastanza gratuite. Molti capitoli di LD&R sono oggetti concepiti per il solo godimento, forse più di uomini che di donne. “Sucker of Souls” invece sembra un cartone animato per ragazzini appena iscritti alle medie, capitato lì per caso. Altri ancora sono realizzati magistralmente nello stile ma risultano deludenti nella sostanza, e in quel caso la brevitas del corto aiuta a mandare giù il boccone. Forse una approssimazione per difetto nel numero dei cortometraggi presentati, avrebbe aiutato nel raggiungimento di un risultato più omogeneo dal punto di vista della qualità.

Il titolo della serie inoltre, sembra richiamare apertamente il libro di David Levy, “Love and Sex with Robots” (2007), pubblicazione pionieristica per gli studi di social robotics e artificial-emotional technologies, nel quale si discuteva senza riserva l’idea di una società che in maniera libera possa consegnarsi emotivamente e sessualmente alla tecnologia, in tutte le sue forme e capricci. Di questo caleidoscopio di possibilità nella serie non v’è traccia e si rimane fermi alla normativa dello splatter, del sesso etero o tuttalpiù lesbo, senza nessuna esplorazione né sulla violenza, né sul piacere, tanto meno l’amore o l’affetto, o la coesistenza di menti e forme di vita che siano andate gemmando come in un campo di fiori i cui fecondi effluvi di pollini siano accolti da tutti.

Se pure la serie allarga con qualche merito l’offerta Scifi oggi disponibile, fallisce nell’apportare quel grado di innovazione che ora, con una consapevolezza diffusa sul genere, ci si aspetta da prodotti simili. Dalla fine del diciannovesimo secolo, per ragioni diverse, le comunità creative e i circoli critici hanno concepito la conversazione sulla fantascienza come la massima espressione della tecnomodernità occidentale, delle sue adiacenze con scienza e tecnologia, del potenziale politico sovversivo, e questo ha influito inevitabilmente sulla produzione artistica. ? ciò che avviene con Black Mirror e LD&R, dove nonostante i risultati eccellenti di alcuni episodi, le serie confinano ancora la fantascienza alla (seppur brillante) critica politico-sociale o a coloratissimi action movie.

Anche se sempre presente nella dimensione strutturale, materiale e creativa della fantascienza, l’estetica – la riflessione filosofica dell’opera sul sensibile – è stata largamente ignorata a spese del funzionale, del politico e del conoscitivo, declinando spesso i suoi personaggi, i suoi mondi, le loro leggi, nello stesso modo. Negli ultimi anni, un ritrovato apprezzamento del discorso estetico, ha giocato un ruolo fondamentale nel realismo speculativo, nella svolta verso il postumano e quindi nella critica all’antropocentrismo. Così come altri generi dell’arte o subculture, bisognerebbe iniziare a reinventare il sensibile nella fantascienza, trovare cioè nuovi modi di evocare queste diverse dimensioni del “sentire” all’interno delle sue narrazioni: vista, udito, tatto, movimento, composizione, così come odore, gusto, auree e altri sensi speculativi, senza che questo comporti l’abbandono degli aspetti narrativi, politici o scientifici.

La fantascienza deve ritrovarsi tra queste forme, oggi più che mai. Deve raccontare storie con un’estetica che venga dall’aesthesis, cioè da tutto il sensibile oggi teoricamente coinvolto. I servizi di streaming come quello di Netflix hanno liberato le produzioni da budget storicamente limitati alle sole aspettative del pubblico emerso, ma lo scialo creativo scaturito manca tuttavia nell’adozione di posizioni teoriche nuove, che rendano tossico, velenoso lo sguardo delle narrazioni di fantascienza transmediali, così come la letteratura è riuscita a fare con autori come Jeff VanderMeer o China Mieville, che hanno creato mondi non comuni, stravaganti, coabitati da organismi e leggi genetiche insolite, ma rigorosi nella loro verosimiglianza e nell’equilibrio interno. L’animazione soprattutto è uno strumento unico, in grado di accedere molto più facilmente a formule sperimentali capaci di rompere confini tecnici, sociali e culturali. D’altro canto oggi le rappresentazioni provenienti dalla computazione algoritmica, prive di un legame originario con la realtà, agiscono su oggetti “reali” e “familiari”, generando forme di vita e narrazioni parallele.

Il cinema di fantascienza è stato e potrebbe essere ancora in bilico, sulla soglia di ciò che è ancora privo di una forma riconoscibile nella sua rappresentazione: l’indicibile, l’indomito – ciò che è fuori controllo – e quindi ciò che esiste al di là dei regimi della rappresentazione tradizionale, la riproduzione di forme (ir)riconoscibili di vita. Perché per quanto trovi sconveniente la perdita del sonno, superati i trent’anni, mi aspetto turbamenti più profondi.

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