In copertina: Animalia Fashion, Stanza dedicata al cigno
Quando sono stato a Firenze per visitare la mostra Animalia Fashion a Palazzo Pitti, ad accompagnarmi c’era una signora sulla cinquantina, di classe agiata, che restaura mobili antichi e ama vestire bene.
La mostra, curata dalla storica dell’arte Patricia Lurati, vuole raccontare il gioco di ispirazioni e similitudini che la moda intrattiene con il regno animale. L’allestimento riproduce così un museo zoologico, con abiti di marchi come Valentino, Chanel o Dior al posto degli animali.
Le stanze sono illuminate vagamente: ognuna è dedicata a un animale, che viene riprodotto attraverso un quadro, una miniatura da un bestiario medievale oppure un esemplare impagliato proveniente dal museo di storia naturale. L’effetto è lineare e diretto, la metafora lampante. Un abito da sposa di piume di Karl Lagerfeld per Chanel riprende le fattezze del cigno, dei sandali di Sergio Rossi riproducono l’effetto della barriera corallina.
All’uscita del museo ho studiato la reazione della mia amica. Mentre io visito le mostre di moda per interesse e studio, lei era lì con me per fare un’esperienza nuova, senza pregiudizi ma nemmeno con una conoscenza approfondita del settore.
Vagamente delusa, mi ha detto che mentre si aggirava per le sale aveva avuto la sensazione di non riuscire mai ad afferrare il punto della situazione. Su cosa doveva focalizzarsi? A cosa doveva prestare più attenzione, alla bellezza dei capi o alla loro somiglianza con gli animali? Sono domande legittime, perché in Italia non siamo per niente abituati a vedere abiti nei musei.
La moda e l’arte sono da sempre due mondi in dialogo, che spesso si mischiano e si influenzano. Ma hanno nature differenti, così come sono diversi i motivi per cui entrano nei musei. Daniele Perra ha scritto, che «sono sempre più frequenti le mostre e gli eventi dedicati a stilisti e fotografi che “fuoriescono” dall’ambito del fashion per “entrare” nell’olimpo dell’arte contemporanea e nei musei». Parole che celano un tic culturale tutto italiano: l’idea che la moda, per essere sostenibile in un museo o in contesti cosiddetti “colti”, debba essere chiamata arte, dato che in un’ipotetica mappa culturale la moda e l’arte si posizionano altrimenti a due altitudini diverse. La prima deve ambire a farsi chiamare arte per poter accedere ai luoghi della seconda. Ma è davvero così che funziona?
La mia amica si aspettava di visitare Palazzo Pitti ricavandone un’esperienza del tutto simile alla visita di un museo: i vestiti, però, devono essere guardati non come opere d’arte, ma proprio in quanto vestiti. E il motivo per cui si possono trovare nei musei è che intercettano e restituiscono il passaggio di più esperienze: raccontano lo stato socioeconomico di un paese in un dato periodo, e quindi anche la sua storia, hanno a che fare con le abitudini, i gesti e le esigenze delle persone per cui sono stati ideati, parlano dell’immaginario che i loro designer, come sismografi, avvertono nel mondo e concretizzano in essi, e infine sono oggetti di desiderio (non importa se raggiungibili o meno). La moda non va fatta fuoriuscire dal suo ambito per entrare in quello dell’arte. Deve entrare nei musei (e ci entra) proprio in quanto moda.
La conseguenza di questo fraintendimento è che in Italia non siamo riusciti ad avere un vero e proprio luogo che potesse accogliere, conservare e mostrare la moda e il suo sistema come oggetto culturale complesso. Esistono soltanto realtà frammentate, come la Galleria del costume e della moda a Palazzo Pitti, il Gucci Garden, museo proprio della maison, riallestito nel 2018, o le mostre temporanee curate in tandem da Maria Luisa Frisa, curatrice e professoressa dello IUAV di Venezia e Stefano Tonchi, direttore di W Magazine (Bellissima. L’Italia dell’alta moda 1945-1968, del 2015, al MAXXI di Roma e ITALIANA. L’Italia vista dalla moda 1971-2001 del 2018, a Palazzo Reale, Milano).
ITALIANA raccontava un arco di anni cruciale per la moda italiana. Era l’epoca in cui si passava dall’alta moda al pret-à-porter, ovvero da una produzione elitaria a una su vasta scala, più democratica e accessibile. Per dare concretezza a questo passaggio gli abiti sui manichini, di Prada, Missoni o Versace, erano posizionati su grandi pedane al centro delle prime due sale. Non appena entrava nello spazio allestito, il visitatore si ritrovava così davanti a una folla non dissimile dall’altra, grande folla che brulicava e si agitava pochi metri più in basso, in Piazza Duomo. La disposizione spaziale concretizzava così il processo di democratizzazione vissuto dalla moda italiana, dagli anni Settanta in poi. Un ottimo esempio, questo, di come le mostre sulla moda possano intercettare movimenti non legati soltanto a cambiamenti di stile, ma anche sociali, culturali ed economici.
Proprio nel catalogo di ITALIANA, la studiosa di letteratura e moda Paola Colaiacomo afferma che la mostra è «un atto critico visuale» che necessita di «risposta immediata nel grande pubblico», in quanto possiede una «funzione educativo-ricreativa». Se tutte le mostre incentrate sulla moda hanno la doppia funzione di mostrare la bellezza e la dimensione del sogno e di rendere visibile il messaggio che si nasconde dietro ai vestiti, in Italia si aggiunge l’urgenza di educare “il grande pubblico” a come debbano essere guardate.
Davanti al confronto con la Francia o l’Inghilterra, nazioni in cui vi sono diverse istituzioni, come il Musée Galliera, il Musée des Arts Décoratifs, e Victoria & Albert Museum, che da tempo allestiscono mostre di moda capaci di attirare molti visitatori e di inserirsi in un discorso culturale ampio e variegato, ci si rende conto ancora meglio di quanto ogni mostra di moda in Italia diventi necessaria.
Non a caso Maria Luisa Frisa diceva in un’intervista che «la moda in Italia dovrebbe meritare più attenzione. Per questa ragione, con Stefano Tonchi abbiamo agito assumendo la postura della militanza».
Un’altra delle rare eccezioni italiane è rappresentata dal già citato Palazzo Pitti. Nel 2017 Il Museo Effimero della Moda, mostra temporanea curata da Olivier Saillard, direttore del Musée Galliera a Parigi, rifletteva sulla stessa esposizione museale degli abiti: nelle stanze erano state allestite le diverse modalità con cui i vestiti possono essere mostrati. A un certo punto vi erano, accanto ai capi di Gucci o di Christian Lacroix, persino le giacche del curatore appoggiate sullo schienale di alcune sedie.
La mostra invitava il visitatore a interrogarsi sulla natura stessa degli abiti. Il titolo indicava così non solo la volubilità della moda, il suo cambiare continuo, ma anche la natura fragile dei vestiti. Alcuni capi presenti non potevano essere appesi sui manichini, ma dovevano giacere su piani orizzontali per evitare che si sfaldassero.
Una scelta del genere sottolineava quanto il patrimonio della moda sia deperibile e al tempo stesso gettava luce sulla necessità di preservarlo. Il pubblico non esperto che si aggirava per le sale si era mai chiesto quanta attività di conservazione e restauro possa esserci dietro a un museo che si occupi di moda?
Silvia Schirinzi scriveva su Rivista Studio (numero del 30 marzo) di quanto «ancora ci sia da fare per assegnare alla nostra moda quella centralità nel discorso culturale che le spetta di diritto». In Italia, dove la buona fattura dei vestiti conta sempre in quanto sinonimo di gusto ed eleganza, dove il Made in Italy è un vanto delle cartoline da Bel Paese, non siamo riusciti a comprendere l’importanza di quello che la moda poteva dirci su noi stessi e sugli altri. L’abbiamo marginalizzata sotto le categorie del futile e del superfluo, e ce ne siamo in qualche modo liberati.
Quando Schirinzi conclude chiedendosi: «a quando i nostri musei (plurale) della moda?», attribuisce alle mostre e ai musei il compito di sbloccare le resistenze culturali che ci trattengono, a tutti i livelli della società, dal fare un passo in avanti.
È passato quasi un anno dall’articolo e intanto il Ministero dei Beni Culturali ha istituito una commissione speciale per «individuare politiche pubbliche per la tutela, conservazione, valorizzazione e fruizione della moda italiana nella sua accezione di patrimonio culturale». Il cambiamento è evidente, soprattutto in un discorso che si protrae nel tempo. Già nel 1981, quando l’idea di istituzionalizzare musei che si occupassero di moda era lontana, Alessandro Mendini, in un numero della rivista di architettura Domus dedicato alla moda, scriveva di quanto potesse essere interessante «l’istituzione e il progetto di “musei della moda”, organismi che non vanno confusi con un po’ di vestiti poggiati su manichini come fantasmi».
Era più di trent’anni fa, e già era palese la confusione culturale della ricezione pubblica. Quanto ancora bisogna aspettare per guardare a quei manichini non come fantasmi, ma come cosa viva?