L’ultima risata

Raggelante studio di umiliazione e ossessione che mescola mondo del circo, melodramma e sfumature simboliche. Derisione e amore in He Who Gets Slapped di Victor Sjöström.

In copertina: Un fotogramma dal film He Who Gets Slapped

 

“Raggelante studio di umiliazione e ossessione che mescola mondo del circo, melodramma e sfumature simboliche.” Derisione e amore in He Who Gets Slapped di Victor Sjöström.

di Fabio Matterazzo


 

È l’ultima sera dell’Euganea Film Festival, il 15 settembre 2024 a Monselice, in provincia di Padova, si tengono le premiazioni della ventitreesima edizione, che ha visto partecipare quarantasei proiezioni da ogni parte del mondo. Molte anteprime, corti, animazioni e documentari coraggiosi, censurati in molti Paesi. La descrizione dell’ultimo titolo non lascia indifferenti e mette in una posizione difficile anche i più curiosi avventurieri cinefili:

Laura Agnusdei, Stefano Pilia, Antonio Raia
He Who Gets Slapped Film-Concerto
Raggelante studio di umiliazione e ossessione che mescola mondo del circo, melodramma e sfumature simboliche.   

Il titolo del film – He Who Gets Slapped, di Victor Sjöström (conosciuto in America come Victor Seastrom) – non confonde il cultore della materia: un film muto pluripremiato, prodotto dalla Metro-Goldwyn-Mayer, che compie cento anni dalla prima uscita. Per l’occasione, tre musicisti (Agnusdei, Pilia e Raia) accompagnano la proiezione portando lo spettatore un secolo addietro, quando il cinema era ancora in fase di incubazione. Nel 2017, He Who Gets Slapped è stato selezionato per entrare a far parte della Library of Congress, la biblioteca nazionale degli Stati Uniti, e nel 2020 è diventato di pubblico dominio secondo le leggi sul copyright americane. Il lungometraggio è tratto da Tot, kto polu?aet poš?ëiny (“Quello che prende gli schiaffi”), una commedia russa di Leonid Nikolaevi? Andreev, andata in scena per la prima volta al Teatro d’arte di Mosca nel 1915. Con la sua opera, Andreev intendeva proporre la sua idea di panpsichismo nel teatro, focalizzando il dramma sullo sviluppo degli aspetti interiori, psichici ed intellettuali dei personaggi, a partire dalle loro azioni esteriori. La musica suonata dal vivo a Villa Duodo a Monselice ci riporta agli esordi del cinema, quando era ancora in cerca di una sua autonomia espressiva; ma forse proprio per questo capace, nella sua semplicità, di sorprendere e di comunicare con forza contenuti autentici ormai rari nel panorama odierno. He Who Get Slapped chiude il festival itinerante dei colli padovani, vinto dalla  testimonianza dell’attivista palestinese Basel Adra No Other Land: toccante e coraggioso documentario sull’espropriazione delle terre palestinesi da parte dell’esercito israeliano.

Rispetto ad altri titoli del festival, era impossibile non soffermarsi sul trafiletto introduttivo scritto dal direttore artistico Giovanni Benini. Sostiene che non si tratta di un semplice film, ma  più che informare sulle tematiche trattate, Benini anticipa un’atmosfera particolare, non adatta a qualsiasi pubblico. He Who Gets Slapped è la messa in scena della tragica sorte di Paul Beaumont, interpretato da un magistrale e oggi poco noto Lon Chaney: un uomo di scienza derubato delle sue scoperte dal professore in cattedra, il barone Regnard, che lo sberleffa umiliandolo di fronte al pubblico accademico. Non solo: il barone si scopre essere anche l’amante della moglie dello scienziato. Deriso in pubblico e in privato, a Paul viene l’idea di continuare a fare ridere assumendo le vesti di un clown, e per farlo rimette in scena la sua vita in uno spettacolo all’interno di un piccolo circo fuori Parigi. Nonostante il successo, però, si ritroverà ad affrontare nuovamente i mostri del passato, tra i colpi di scena dentro e fuori dello spettacolo, tra il teatro e la vita. 

Gli elementi che contraddistinguono il cinema muto sono due: la musica e la tecnica di recitazione. L’importanza della colonna sonora era evidente sin dalle prime proiezioni e lo spettacolo era simile più a un’esibizione teatrale che al cinema come lo conosciamo oggi. Questa fase aurorale del film, chiamata cinema delle attrazioni, fa di nuovo la sua comparsa a Monselice, grazie alle percussioni poliformi di Laura Agnusdei, alla chitarra elettrica di Stefano Pilia e al sassofono di Antonio Raia. D’altro canto, la tecnica di recitazione del cinema muto enfatizzava all’estremo l’espressività mimica, imitando il teatro ma focalizzandosi molto di più sulla gestualità, fino a risultare addirittura grossolana. La comicità di Charlie Chaplin, da cui ha preso forma il genere Slapstick, è la sua forma più rappresentativa.

He Who Gets Slapped - la locandina

La locandina del film He Who Get Slapped (1924); Metro-Goldwyn-MayerFilmaffinity

Un breve testo in grandi caratteri apre la narrazione di He Who Get Slapped, seguito poi da un clown intento a far girare un’enorme sfera.  

In the grim comedy of life, it has been wisely said that the best laugh is the best.
“Qualcuno disse saggiamente che nella tetra commedia della vita non c’è niente di meglio di una gran risata”.

La sfera diventa un mappamondo e a girarlo è uno scienziato, a casa sua, dove festeggia la sua grande scoperta insieme al relatore e alla moglie. All’accademia, il barone Regnard presenta le scoperte di Paul come fossero le sue. Dopo un gioco di sguardi tra lui e Paul, quest’ultimo sale sul palco per rivendicare il riconoscimento del premio; e in quel momento arriva lo schiaffo, davanti alla commissione. A quel punto esplode una tra le più spontanee e terrificanti risate mai viste. I volti muti contorti dal riso rendono la scena agghiacciante. Gli stacchi di camera sono lenti, scanditi da una  grammatica filmica  ancora ai primi stadi. La musica dal vivo ci trasporta in un’altra epoca e propone melodie inquietanti, con ritornelli giocosi e tonalità in minore.

La mimica degli attori è molto marcata, quasi teatrale, e gli stacchi della macchina sono tanto semplici quanto efficaci, non solo sul palco universitario, ma anche in casa del protagonista, dove Paul sorprende il barone in procinto di andarsene con la sua compagna. Rimasto solo, Paul inizia a ridere della sua disgrazia: una risata liberatoria, quasi facessero ridere anche a lui quegli schiaffi e quel destino beffardo. Quella risata diventerà il suo cavallo di battaglia in un circo vicino a Parigi, dove conquisterà la fama facendosi prendere a sberle ad ogni spettacolo da sessanta clown, nel pieno del tentativo di dimostrare le sue teorie.  

What is it in human nature that makes people quick to laugh when someone else get slapped – whether the slap be spiritual, mental – or phisical?
“Che cosa c’è nella natura umana che fa ridere quanto qualcun altro che viene schiaffeggiato – a prescindere se lo schiaffo sia spirituale, mentale o fisico?”

Schadenfreude è un termine della lingua tedesca che non trova un suo corrispettivo in italiano e nemmeno in altre lingue, quasi indicasse un’emozione esclusivamente riservata ai popoli teutonici. In realtà la schadenfreude è qualcosa di molto diffuso, è la gioia di fronte alle disgrazie altrui. La storica inglese Tiffany Watt Smith ha dedicato a riguardo un intero studio, indagandone le infinite sfaccettature (Schadenfreude. La gioia per le disgrazie altrui, UTET, 2019). Solo la lingua tedesca è riuscita a raccogliere un concetto così ampio in un unico termine: non è solo il piacere di assistere al male degli altri, ma è anche quella sorta di soddisfazione a non essere noi dall’altra parte. Il ricercatore schiaffeggiato dal relatore è un chiaro esempio di schadenfreude. Tiffany Smith ne individua le caratteristiche principali: è suscitata da figuracce e imbarazzi (non da morti o tragedie),  ed è una tregua dal nostro senso di inadeguatezza, in quanto ci offre un assaggio di superiorità di fronte alle delusioni degli altri. “Come e perché godiamo del dolore degli altri, cosa è accettabile e cosa invece è troppo: sono questioni che rientrano nelle riflessioni filosofiche e letterarie più importanti degli ultimi duecento anni” afferma Tiffany Smith. He Who Get Slapped ci pone lo stesso interrogativo.

Lavoro nel settore audiovisivo da molti anni, e aver visto questo film a un secolo dalla sua uscita, con lo sguardo del professionista, ha fatto scattare in me diverse reazioni – oltre, chiaramente, alla gioia per quell’atmosfera di partecipazione e curiosità che pochi contesti sociali come il cinema sono in grado di evocare. Lo sguardo professionale mi ha permesso di apprezzare tutta l’artigianalità che quel film ha richiesto, dal posizionamento delle camere agli espedienti narrativi realizzati attraverso il minuzioso e articolato lavoro di montaggio: all’epoca consisteva nel tagliare e riagganciare pezzi di pellicola, muniti solamente di pazienza e di attrezzature che oggi si trovano solo in un museo del cinema (un lavoro simile a quello di un redattore che sistema la punteggiatura e l’articolazione dei periodi). Segue poi una strana e inequivocabile certezza che quel film era  lì per essere visto esattamente da me, cento anni dopo, per farmi riflettere sull’umiliazione e sull’amore. Lo sguardo terrificante e allo stesso tempo ironico di quel clown è una diapositiva impressa nella storia del cinema e rimanda a tantissime altre sue apparizioni che nessuno può dimenticare, come It – che nella scena iniziale del remake del 2017 appare da sotto terra con un palloncino in mano – o il Joker interpretato da Joaquin Phoenix che ha ricucito l’inconscio di un criminale noto a tre generazioni di appassionati di fumetti e supereroi. Come in Joker di Todd Phillips, il pagliaccio tradito dal suo stesso personaggio è una figura che ci pone in rapporto ambivalente con noi stessi, perché si tratta di un essere fondamentalmente buono, cambiato dopo una sfortunata serie di eventi che hanno fatto emergere lati profondi e nascosti, ma di incredibile potenza. In He Who Gets Slapped il protagonista è sottoposto a una terribile umiliazione da parte del barone universitario con cui  ha lavorato e ha presentato le sue scoperte. E il volto schiaffeggiato in pubblico –  sorpreso da un gesto così al di fuori di ogni aspettativa (quella di una persona tanto umile da non aver mai saputo cos’è l’umiliazione) – diventa la maschera del pagliaccio che farà ridere migliaia di spettatori in una performance circense.

A cosa ci sottopone il regista Victor Sjöström? Il suo intento non è farci ridere, e nemmeno torturarci con la storia di un personaggio penoso. Per capirlo, soffermiamoci su alcune sequenze. Il passaggio dal mondo accademico a quello del circo avviene già all’inizio del film. Quest’ultimo è un mondo surreale pieno di pagliacci che si truccano, dove Paul non c’entra nulla. È talmente estraneo alla logica dello spettacolo che non riesce a trattenersi dall’aiutare un bambino maltrattato dall’istruttore e capo del circo. In quel contesto Paul, il pagliaccio, non ha nessuna aspirazione, non ha alcun potere, anche se è chiaro che il suo spettacolo è quello di punta. È un successo fittizio il suo, che non lo appaga perché quello che vuole è da un’altra parte, nel mondo dal quale si è dovuto allontanare. Paul porta la sua umiliazione sul palco del circo e si prende gioco della sua disgrazia mettendola in scena.

There’s nothing makes people laugh so hard as seeing someone else get slapped.
“Niente fa ridere così tanto come qualcuno preso a schiaffi”. 

The agony of that night exhausted Paul Beaumont’s power to suffer. Fort there is a limit to what men can suffer – and live. Paul Beaumont’s lived – to laugh at life. He laughed at his wife and the Baron – and left them to the doubtful joy of each other’s society.
“L’agonia di quella notte consumò la capacità di soffrire di Paul Beaumont. Perché c’è un limite a quanto un uomo può soffrire, e vivere.. Paul Beaumont è vissuto, per ridere della vita. Rise di sua moglie e del barone, e li lasciò alla dubbia gioia della reciproca compagnia”.

C’è un limite a quanto un uomo può soffrire. Paul è stato deriso, e lui a sua volta ride della vita. Il sorriso inquietante del clown segna i capitoli del film cambiando di significato a ogni nuova risata, fino ad arrivare all’ultima – la migliore, chiaramente.

Chi sono io senza di lei? cosa rimane di me senza le cose più importanti nella mia vita? È quanto si chiede il protagonista mentre la sua identità si sgretola in pochi istanti, e l’inquadratura ritrae questo cambiamento passando – con un effetto di dissolvenza ottenuto attraverso tecniche di regia rudimentali –  dal mappamondo di Paul a un pallone rotante da circo, in mano al clown. Ovvero la prima inquadratura con la quale era partito il film. La poetica è chiara: lo stacco di immagini gioca da metafora per raccontare l’umiliante passaggio di Paul da brillante scienziato a buffone. È la morte di lui come scienziato e come uomo di famiglia. E la morte, infatti, è quanto viene messo in scena nel suo spettacolo circense. Il pubblico parigino prende il posto della commissione accademica e una schiera di clown lo prende a schiaffi mentre tenta, in veste di pagliaccio, di dimostrare la teoria eliocentrica. Al termine dell’esibizione viene inscenata la sua morte, con tanto di processione dei clown che lo raccolgono con una barella bucata. Il vissuto di Paul che diventa la sceneggiatura di uno spettacolo sembra la trama scritta da uno psicanalista. Dalla rielaborazione della sua tragedia personale ne ricava una forma artistica, ma la cura è solo parziale. Infatti, il racconto prosegue con Paul che si innamora di nuovo di una ragazza conosciuta al circo, Consuelo, ma non viene preso sul serio: ancora una volta viene deriso, e ancora una volta il barone pretende per sé la donna di Paul. C’è un cambiamento però. Questa volta lo spettacolo è il suo, è Paul il protagonista, e Consuelo, la ragazza di cui è innamorato, non ricambia il barone poiché è innamorata a sua volta del suo compagno di spettacolo, il fantino,anche se il padre avrebbe accettato la richiesta del barone di sposarla. Paul affronta così i suoi mostri, si rinchiude dietro le quinte con il barone, il padre della ragazza e un leone. Il barone e il padre vengono sbranati dal leone, mentre Paul torna sulla scena del circo, ferito dallo spadino del suo rivale. I colleghi clown non si accorgono della ferita e non si rendono conto che la sua non è una recita, non è una sua nuova trovata. Inutilmente Paul cercherà di spiegarsi, ma sarà preso a schiaffi ancora una volta. Lo spettacolo si mescola con la sua vita fino a cancellare il confine tra realtà e finzione: il destino, forse, di ogni grande artista.

Victor Sjöström ha messo a punto uno stile utilizzando il linguaggio filmico con maestria e con effetti speciali che oggi apparirebbero ridicoli. Il film è una tragedia – è chiaro. Il protagonista è l’emblema di chi ha saputo assecondare un destino avverso, e questo rende la pellicola estremamente attuale, fonte di ispirazione per chi è stato deriso e umiliato. Nella sua veste di clown Paul diventa un personaggio senza nome (He), inadatto sia di fronte a un amore cinico (come quello della moglie per il barone), sia rispetto a un amore romantico (come quello tra Consuelo e il fantino). Paul è un personaggio fondamentalmente buono, e come il protagonista di un noto romanzo di Dostoevskij, estremamente ingenuo – quasi a dire che chi si illude di una bontà che è intrinseca nell’uomo passi inevitabilmente per idiota.

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