“La Bestia che cercate voi, voi ci siete dentro”. In viaggio con i Santi Mostri di Ade Zeno

In copertina: I Santi Mostri

di Stefano Vernamonti


Ritardi dei treni, viaggi in notturna, emicranie, serate disastrose ma anche ricevimenti in pompa magna e scrosci di applausi. Questi sono solo alcuni degli avvenimenti che Gebke Bauer registra nel diario di bordo della compagnia itinerante circense di cui è il direttore artistico, a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, mentre gira in lungo e in largo una Germania che sta percorrendo la sua parabola nazista. Destini individuali e storici degli itineranti e del regime si intrecceranno più di una volta nel corso di questi vent’anni, e sempre per lo stesso motivo: la compagnia circense è composta di mostri.

Perlomeno è così che loro stessi decidono di farsi chiamare, dato che si battezzano come L’Errante Compagnia dei Santi Mostri: appellativo, Santi Mostri, che dà il titolo al nuovo romanzo di Ade Zeno, finalista al premio Tondelli con il romanzo d’esordio Argomenti per l’inferno e finalista al Campiello 2020 con L’incanto del pesce luna; il libro, edito per Bollati Boringhieri nel 2024, racconta la genesi e le avventure di questa eclettica compagine artistica. I mostri però, quelli con tre teste o con le ali squamate, non esistono se non nei romanzi di fantascienza, e non è questo il caso. Esistono invece delle persone costrette a portare la croce della deformità fisica, come Jörg Brandt, affetto da ipertricosi (l’eccessiva crescita dei peli), o Benner, nato con genu recurvatum (una dislocazione congenita rara del ginocchio). Ed esistono persone a cui invece la deformità è stata imposta, come Hilla, del cui volto sfigurato in maniera terribile non è colpevole la natura, ma un uomo violento a cui piaceva giocare con i coltelli. Questi sono solo alcuni dei personaggi che si imbarcheranno nelle avventure della compagnia di cui Gebke Bauer, protagonista tra i protagonisti, sarà la mente.

 

“Qualcuno parlò di follia, altri liquidarono la faccenda come il ticchio di un rampollo capriccioso. Nessuno, però, seppe spiegare quali fossero le reali intenzioni che lo avevano spinto a capitanare una cosca di disgraziati deformi. Eppure sarebbe bastato osservargli le mani per capire cosa lo facesse sentire tanto orrendamente diverso. Il fatto è che Gebke Bauer aveva dodici dita.”

 

Gebke decide di mettersi in gioco perché è uno di loro: è un mostro, è deforme, benché di una deformità (la polidattilia) che si può facilmente nascondere con un paio di guanti di cuoio nero. Questo, a detta di Gebke stesso, è il motivo del suo interesse viscerale verso altre deformità, più cruciali, più evidenti; come quella di Jörg, l’uomo scimmia, primo arruolato tra le fila dei futuri Santi Mostri. Affinità che non esiterà a mostrare, in una conversazione con il fratello di Jörg stesso.

 

“Dovrai spiegami cosa ci trovi di tanto interessante, disse un giorno a Gebke. È come me, fu la risposta. È un mostro. Per l’appunto, chiuse l’altro. E su questo argomento non tornarono più.”

 

Dopo essere fuggiti dalle rispettive famiglie (“una sola riga, portami via da qui”, leggerà Gebke in un bigliettino infilatogli in tasca) i due si uniranno al circo Vogt per qualche mese, dove Jörg si esibirà, sotto istruzioni di Gebke, nella declamazione di poesie in italiano. Jörg non conosce la lingua italiana, familiare solo a Gebke, non la conoscono neanche gli spettatori, eppure la folla si riversa a ondate continue per assistere allo spettacolo. Il motivo è presto detto: “tutti sembravano concordi nel ritenere che non si fosse mai vista una scimmia leggere con tale forza interpretativa quelli che avevano l’aria di essere degli armoniosi endecasillabi sciolti”.

L’occasione di mettersi in proprio, per così dire, giunge un giorno assieme a un olandese, commerciante di “articoli esclusivi”, vale a dire persone deformi. Tre sono gli articoli in vendita: l’uomo piovra, l’uomo cammello e la donna sfigurata. Dopo aver trovato i soldi per riscattarli dalla loro condizione di proprietà e un mezzo per scorrazzarli in giro, a Gebke e Jörg si uniscono così Balthasar, Benno e Hilla. Il gruppo originario dei Santi Mostri è finalmente al completo.

La scrittura di Zeno, che fino a questo punto aveva felicemente indugiato sulle storie dei protagonisti, sulle difficoltà dell’impresa, si fa più incalzante e veloce. A bordo di Geraldine prima, un furgone B-Type scassato risalente alla Prima guerra mondiale, e alloggiati in lussuosi appartamenti una volta raggiunto il grande pubblico, i Santi Mostri conquistano in lungo e in largo nella Germania degli anni Trenta una notorietà che non è unicamente il frutto delle loro deformità: Hilla è un’abile mangiatrice di spade, Benno e Balthasar si scoprono capaci di spettacoli di giocoleria. I Santi Mostri non piangono miseria, non sono animali da impagliare, ma cercano un riscatto sociale dai tratti quasi universali. La condizione stessa di reietto sociale viene messa in questione: non hanno nessuna voglia di essere “povere creature”. Del resto,

 

“di mostri a tre gambe, sosteneva, erano pieni i baracconi di mezzo mondo, ma per quanto ne sapeva lui quel timido ragazzo di Rummelsburg [Balthasar] era l’unico in grado di far vorticare coi piedi undici melograni a ritmo di swing”.

 

Il successo nazionale che collezionano in quindici anni di spettacoli permette loro di scampare momentaneamente alle persecuzioni del regime nazista, appena instaurato. Con un andamento sinusoidale nella sua scrittura, Ade Zeno traccia su binari paralleli l’ascesa sia del nazismo che della popolarità dei Santi Mostri, i cui spettacoli li pongono sotto le luci della ribalta, troppo perché il regime possa pensare di sbarazzarsene. Questo fin quando Hitler non invaderà la Polonia e darà inizio ai programmi di eugenetica e alla sterilizzazione di individui schizofrenici, epilettici, menomati. Sarà questione di mesi prima che si decida anche della loro morte.

Per i Santi Mostri è l’inizio della parabola discendente: le platee si svuotano, gli impresari rinunciano ad ospitare la compagnia, i riflettori si spengono. Lo stile di Zeno si fa di nuovo più lento, si attarda, in solidarietà con i suoi protagonisti. Ma Gebke non si dà per vinto: recluta nuovi ingressi nella compagnia, come Erlwin Regensburg, nano bavarese di un metro e ventidue centimetri, e sua figlia Leila, equilibrista cieca, e tutti assieme ripartono, in cerca non solo di fortuna, ma stavolta anche di sopravvivenza: mostri appariscenti che cercano scampo da un altro tipo di mostri, nascosti dietro croci uncinate, divise immacolate e un’idea ignobile di purezza.

Ma la loro tensione vitale non sarà sufficiente. L’ultimo arrivato della compagnia, Polifemo, al secolo Andreas Schneiber, nato con un occhio solo e protagonista della seconda parte del romanzo, susciterà l’interesse smodato di Hitler in persona e di Karl Brandt, teorico e principale sostenitore del programma eugenetico. I Santi Mostri finiscono così sotto l’ultimo riflettore della loro esperienza: quello nazista.

Rampolli, mendicanti, orfani, ma anche lavoratori con un passato circense alle spalle: l’estrazione sociale è un criterio senza peso né spazio nella formazione della compagnia dei Santi Mostri. Nessuno, né l’aristocratico né il poveraccio, è al riparo dalla malformazione, dallo scherno, dalla solitudine. È questa impossibilità comune a intrecciare la loro avventura, dai tratti quasi mitici: versione antieroica degli Argonauti, i Santi Mostri salpano alla ricerca di redenzione personale e sociale.

La deformità è in questo romanzo la livella sociale par excellence, che si sostituisce alla morte di curtisiana memoria. O meglio vi si affianca: la deformità come sineddoche della sorte, come manifesto della precarietà della vita. Alla nostra società, che ha quasi dimenticato la morte, poiché immersa in un’immediatezza unica e prolungata, quasi eterna, i Santi Mostri raccontano così, attraverso acrobazie e giochi di prestigio circensi, che non siamo tutti uguali, certo, ma lo siamo sempre davanti alla casualità della sorte e alla necessità della morte inscritta nel nostro destino. Sta a noi trarre il meglio da entrambe, mentre eseguiamo l’acrobazia circense più complicata che esista: vivere (o sopravvivere?).

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