Femmine storte in terra straniera

In copertina: Love slowly kills di Adrian Borda, 2012

 

Sintomatologia dell’abbandono, dalla Medea di Euripide alla Olga ferrantiana

di Jo Blivion


 

Un pomeriggio d’aprile, subito dopo pranzo, Mario annuncia a sua moglie Olga che vuole lasciarla. Ancora incredula, la povera donna si ritrova come all’ingresso di un labirinto, armata di una disperata determinazione. E una curva dopo l’altra, scomponendo e ricomponendo le tappe di un matrimonio per cui ha sacrificato tutto, Olga si affanna alla ricerca dei dettagli più insignificanti, eppure cruciali, che avrebbero causato lo sfibramento del suo arazzo matrimoniale. Ma quello che all’inizio sembrava il nuovo capolavoro di Dedalo, non è che un corridoio dritto senza porte lungo le pareti che la conduce alla dolorosa verità: suo marito ha un’altra, l’ha tenuta nascosta per ben cinque anni, mentre Olga badava alla loro casa e ai loro figli. Così cominciano I giorni dell’abbandono, romanzo di Elena Ferrante pubblicato da Edizioni e/o nel 2002: con la fine di un matrimonio, un omuncolo e due donne. Olga sa chi è la donna segreta di suo marito, incarna tutto ciò che lei è stata e tutto ciò che vorrebbe tornare a essere: Carla è nel fiore degli anni, ha tutto il mondo da prendersi mentre Olga, padrona di nulla, inaridisce sotto il sole di un’estate torinese crudele.

 

Elena Ferrante descrive per la sua protagonista una vera e propria sintomatologia dell’abbandono, una malattia radicata nel corpo di tutta la letteratura europea, risalente a tempi ben più lontani dell’avvento ferrantiano. Una delle prime diagnosi di abbandono letterario è ascrivibile al mitico personaggio euripideo: Medea, incurabile – perciò letale – la pessima madre per antonomasia. Una creatura accomunabile a Olga sì per il malanno, ma non solo.

 

Esiste, infatti, un sottile filo di ferro che, arrugginito dal tempo e dall’acqua di mare, unisce la Colchide di Medea alla Napoli di Olga, che si basa sulla percezione selvatica che tutti gli altri hanno delle loro terre di origine. Dove “tutti gli altri”, in Euripide, sono i corinzi, in Ferrante, i torinesi. Una visione distorta e spietata che spinge le due donne a sradicarsi da quella terra e a innestarsi quanto più lontano possibile per inseguire una promessa di stabilità che, come i loro mariti, proiettano su un altrove più giusto, più civile. Nel secondo episodio della tragedia, Medea e il marito Giasone si confrontano e si affrontano dopo che Medea ha scoperto delle imminenti nozze di Giasone con Glauce, la principessa di Corinto. Questo evento comporterà anche la cacciata di Medea e dei suoi figli dalla città, affinché non rappresenti più una minaccia per Giasone e la sua sposa. Durante il furioso scambio di battute, Medea non esita a rinfacciare al marito tutto ciò che lei ha fatto per seguirlo fino in Grecia, insiste sulla vita infelice che sta riservando a lei e ai loro figli:

 

«Bella vergogna per uno sposo novello, che i figli e io che ti salvai andiamo errando come pezzenti!»

 

Mentre Medea rimarca tutti i sacrifici compiuti per Giasone, lui si concentra sui benefici di cui la moglie avrebbe goduto a seguirlo fino a Corinto.

 

«Come ti dimostrerò, dalla mia salvezza hai avuto più di quanto mi hai dato. Tu (adesso, intende) abiti nell’Ellade invece che in un paese barbaro e sai che cosa è la giustizia e godi delle leggi, senza ricorrere alla violenza.»

 

Ma lo sradicamento si limita solo all’apparenza alla geografia. Da un lato del filo troviamo Medea, una donna che non si può liberare della propria famiglia senza sporcarsi le mani del suo stesso sangue. L’uccisione dei suoi figli è certamente l’elemento più disturbante della tragedia euripidea, ma prima ancora che di infanticidio, Medea è colpevole di fratricidio. La morte del giovane Apsirto è narrata nelle Argonautiche di Apollonio Rodio ed è intrisa di una crudezza ancora più nitida rispetto alla morte dei due bambini di Medea. Complice, forse, anche la natura delle due opere: la Medea andava messa in scena; le Argonautiche, invece, dovevano essere lette. Apsirto segue la sorella sulla nave Argo, il vello d’oro è nelle mani di Giasone, bisogna lasciare la Colchide il prima possibile. Dato che Eete, padre di Medea, e i suoi uomini gli stanno dando la caccia, Medea uccide Apsirto smembrando il corpo e gettando i pezzi in mare, costringendo gli inseguitori a recuperarli uno dopo l’altro, affinché il ragazzo riceva la giusta sepoltura. In questo “prequel” l’ingegno di Medea e la brutalità che ne consegue rappresentano la salvezza per Giasone, ma quando insieme approdano a Corinto, “la terra promessa”, lo sguardo su Medea è guidato da un’altra luce, gettando su di lei delle ombre grottesche che ne rendono manifesta l’origine barbara. In quanto straniera Medea è, infatti, portatrice di usanze primitive e avverse alla norma greca, essendo una strega polypharmakos, “incantatrice”, “conoscitrice di rimedi”, ma soprattutto di veleni.

 

Dall’altro lato del filo, Olga si è lasciata alle spalle il sud per ricostruire la sua vita a Torino assieme a Mario. Con Elena Ferrante Napoli non è mai solo una questione geografica, ma anche acustica. Peculiarità della penna di Ferrante è la scelta di non trasportare il dialetto sulla pagina, ma di raccontarlo e segnalarne l’utilizzo da parte di un personaggio. L’operazione di sottrazione non si limita però a questo, il motivo per cui Olga recide il legame con il dialetto è perché «la minaccia del napoletano viene dal passaggio repentino dei toni, dalla capacità di lacerare all’improvviso l’involucro dell’italiano» (De Rogatis, Elena Ferrante. Parole chiave). Addomesticando la sua prima lingua, Olga tiene sotto controllo quegli istinti feroci e familiari che in «una città di metallo, principi e principesse» quale Torino la priverebbero di qualsiasi possibilità di riscatto sociale. E qui vi è il paradosso: cancellare Napoli vuol dire fissarla bene in mente, covarla dentro di sé, come se la città stessa fosse uno sbaglio inconfessabile, da non commettere più:

 

«Odiavo i toni alti di voce, i movimenti troppo bruschi. La mia famiglia d’origine era di sentimenti rumorosi, esibiti […] perciò avevo imparato a parlare poco e in modo meditato.»

 

Ma la patria è una questione di genetica e nella sua elica possono intrecciarsi piccoli malfunzionamenti. Mentre Mario impara presto a torineggiare, la Napoli dentro Olga non si secca mai, è una penombra stagnante dove si muove la Poverella, un fantasma del passato partenopeo, la prima donna su cui Olga vede prendere corpo i sintomi dell’abbandono, dopo che il marito l’ha lasciata per un’altra, abruzzese come lui:

 

«Adesso veniva giù per le scale rigida, il corpo prosciugato. Si era persa il viso largo e gioviale, il sorriso chiaro. Era diventata di pelle trasparente sulle ossa, gli occhi annegati in pozze violacee, le mani di ragnatela umida.»

 

Se le condizioni in cui Olga e Medea riversano sono così simili, seppur separate da secoli di letteratura e sociologia, è lecito cercare una qualche somiglianza anche tra Giasone e Mario. Ciò che li accomuna è un tratto quasi somatico, che risalta persino sotto le loro maschere di eroe e ingegnere: l’inettitudine. Quando Olga ripercorre gli anni precedenti al matrimonio con Mario, afferma di essere stata lei a partorire suo marito, ad allevarlo e renderlo l’uomo che è ora. Da questa osservazione, germoglia poi la riflessione su cosa sorregga tutti i successi di Mario, e cioè i suoi sacrifici:

 

«Elencai tra me e me tutto quello che mi doveva. […] Mi ero tolta tempo mio per sommarlo al suo e renderlo a quel modo più potente. Avevo messo da parte le mie aspirazioni per assecondare le sue. A ogni sua crisi di sconforto avevo accantonato le mie crisi per confortarlo. Mi ero dispersa nei minuti suoi, nelle sue ore, perché si concentrasse. Avevo badato io alla casa, io al cibo, io ai figli, io a tutte le noie della sopravvivenza quotidiana, mentre lui risaliva cocciutamente la china della nostra origine senza privilegi.»

 

Tornando alla vicenda degli Argonauti, lo scopo del loro viaggio è quello di recuperare il vello d’oro, impresa che già dall’inizio appare fuori dalla portata di Giasone. Nonostante l’aiuto delle divinità, che manipolano dall’alto i sentimenti di Medea perché lo aiuti a superare le varie prove, man mano che le sfide si susseguono, nella testa del lettore serpeggia l’impressione che la predestinata a compiere grandi cose, buone o cattive che siano, sia in realtà Medea. Proprio lei, che nel secondo episodio della tragedia di Euripide, dopo aver scoperto il tradimento di suo marito, rinfaccia a Giasone la sua dappocaggine, di cui gli Argonauti già erano stati testimoni:

 

«Ti ho salvato, come sanno quanti Elleni si imbarcarono con te sulla nave Argo, […] E il drago insonne, che custodiva il vello d’oro avvolgendolo nelle sue spire, lo uccisi io. E ancora io, dopo aver tradito mio padre e la mia casa, venni con te a Iolco, […], per impulso del cuore piuttosto che della mia ragione.»

 

A un certo punto, sia per Mario che per Giasone, le complicità del passato passano in secondo piano davanti a imminenti esigenze future, che né Olga né Medea possono soddisfare. Per dirla in modo blando, sia Olga che Medea hanno fatto la loro parte, e adesso i mariti non sanno più che farsene. Nel caso di Giasone, il matrimonio con Glauce, la principessa di Corinto, ha un pretesto fortemente opportunistico: riappropriarsi di quella vecchia rispettabilità di cui godeva un tempo, rimpiazzando la stirpe meticcia, generata da Medea, con una nata da una donna greca e nobile, dunque doppiamente rispettabile:

 

«Quale soluzione più felice avrei potuto trovare, io, un esule, che sposare la figlia del re? […] Perché avessimo una dimora sicura, […] generando fratelli ai figli nati da te, ponessi questi nella stessa condizione e, congiungendone le stirpi, io fossi felice.»

 

Elena Ferrante, intervistata da Jensen in occasione dell’uscita de I giorni dell’abbandono in Danimarca, descrive il personaggio di Mario come «né un vile né un mascalzone», lo concepisce piuttosto come «un uomo che ha smesso di amare la propria donna con cui vive e si scontra con l’impossibilità di spezzare quel legame senza umiliarla, senza farle del male.» Non c’è giustificazione al tradimento, semplicemente Mario non la vuole più, come se Olga si componesse di due dimensioni, la moglie e la donna, che interferiscono con un ologramma materno contrapposto al volto di Carla, affascinante, virginale, ben truccato, «un travestimento in cui gli uomini deboli cascano.» Ma l’altra donna di Mario più che una donna rimane una ragazzina non del tutto consapevole della percezione maschile sul suo corpo:

 

«Forse senza rendersene nemmeno conto, stava misurando chissà da quando la potenza del suo corpo a onde, dei suoi occhi inquieti, su mio marito; e lui la guardava come si guarda da una zona d’ombra una parete bianca su cui batte il sole.»

 

Il distacco del marito ferisce Olga nel profondo, eppure, quando Mario comincia a sottrarsi alla loro quotidianità, dopo quel fatidico pomeriggio d’aprile, non si inquieta. Lei è ben consapevole dei «vuoti di senso» che sconquassano il marito, in un primo momento è persino disposta a perdonarlo: «Era fatto così, […]: tranquillo per anni, senza un solo attimo di disorientamento, e poi all’improvviso scombussolato da un niente.»

 

Da un lato, insomma, è convinta che, concedendo a Mario del tempo lontano da lei e bambini, lui potrà superare meglio la sua crisi interiore. Dall’altro concepisce il distacco come una prova di resistenza: non deve ritrovarsi affine a nessuno di quei comportamenti sgarbati e scomposti che ha visto da ragazzina. Olga, infatti, pecca di una specie di hybris che, ai suoi occhi, la rende superiore alle altre donne dello stampo della Poverella e che animavano i libri della sua gioventù. I giorni passano, però. E l’assenza e le incertezze di Mario smuovono qualcosa di sepolto dentro Olga. Il suo corpo, la sua età, si accumulano nella sua testa come una matassa ossessiva e nera.

 

«Quando non ti sai tenere un uomo perdi tutto. Se lui ama un’altra donna, qualsiasi cosa tu faccia non servirà a nulla, gli scivolerà addosso senza lasciargli segno.»

 

L’abbandono non rende Olga e Medea donne sole, ma peggio: le isola, ed è da questo che scaturisce la loro forza ferina. Di certo Olga non si spinge fino all’infanticidio, ma, ritrovatasi a badare a due bambini da sola, senza lavoro, prigioniera della calura torinese, spesso finisce per ferirli non sempre senza intenzione. Ammette a se stessa di desiderare il loro male, li abbandona nel bel mezzo di Torino dopo aver perso le staffe, è insofferente alle loro sofferenze, sfrutta la sua posizione genitoriale a volte per aizzarli contro il padre, altre volte perché lo convincano, invece, a far ritorno a casa:

 

«Ah sì, desideravo ferirli. […] Forse volevo abbandonarli davvero per sempre, dimenticarmene, poi battermi la fronte, quando Mario finalmente si fosse rifatto vivo, ed esclamare “I tuoi figli? Non lo so. Li ho persi, mi pare.”»

 

Ma è anche grazie alla loro petulanza che riesce a rinsavire: «Mi sto perdendo e se non mi riacciuffo, cosa succederà ai bambini?»

Nonostante il vuoto lasciato da Mario e il «malfunzionamento dei sentimenti», Olga ci prova con tutte le sue forze a mantenere la vita sotto controllo, favorendone invece la rapida deriva. Si distrae, dimentica i doveri domestici e le persone, confonde rancori passati e presenti. Molto spesso deve imporsi dei comandi, del tipo “Fare questo, fare quest’altro.” Altrettanto frequentemente inciampa dentro di sé per poi, al primo impulso di troppo, riversarsi come un getto acido su chi le sta accanto. Tutto ciò a causa di una mancanza che, in realtà, appartiene a Mario, Olga deve combattere e resistere su due fronti: la maternità opprimente e la femminilità sperduta.

 

Medea, al contrario, non può disperdere le sue energie, tutto questo tempo non ce l’ha. Ricevuta a corte da Creonte, re di Corinto e padre di Glauce, dopo averlo supplicato, riesce a farsi concedere ventiquattro ore di tempo prima di essere allontanata per esilio. E mentre Olga, nonostante il malore, si adopera comunque per il benessere dei figli, Medea non si sente tenuta a dimostrare tutta questa premura. C’è alla base un concetto differente della genitorialità. Quando viene rappresentata per la prima volta la Medea di Euripide, è il 431 a.C.: per la mentalità dell’epoca, una donna non è considerata nemmeno capace di intendere e di volere e i figli sono frutto del solo padre. Proprio Giasone, nel secondo episodio, sottolinea l’inutilità della rabbia di Medea davanti alla decisione di risposarsi, perché tanto «Tu che bisogno hai dei figli?», quelli che lui proprio ora vuole da Glauce perché possa ridare dignità alla sua discendenza. I figli nati da Medea valgono poco e nulla, eppure la loro morte sconvolge Giasone:

 

«Dopo avermi sposato e avermi dato figli, li hai sacrificati al tuo letto! Nessuna donna greca avrebbe osato: e fra tante io volli sposare te, nemica e rovina mia…»

 

Medea non è più forte di Olga, è solo più risoluta. Lei non rema contro il malanno, si lascia infettare, non vuole saperne di curarsi. Mentre per Olga proviamo soprattutto una gran pena, Medea risuona pericolosa per necessità, perché sopravvivere a un torto e rivendicare la sua dignità vale più di ogni aura d’innocenza. È la sua postura in un mondo dove solo la rabbia maschile è legittimata ed elevata a qualità virile, dove la vendetta maschile è glorificata, perché nulla è più sacro dell’onore, che ogni uomo si costruisce sulle spalle dei vinti in guerra. Per onore, per vendetta o per auspicio, un uomo deve uccidere. Ne è l’esempio lampante Agamennone, che sacrifica la figlia Ifigenia per avere dalla sua parte gli dèi durante la guerra. Achille che uccide Ettore e poi lo trascina col carro perché tutti sappiano che lui è vivo, e la sua rabbia più di lui. Davanti all’ira funesta, la comunità tace. E prima di essere ucciso dalla moglie Clitemnestra, per vendicare la ragazza, nessuno considera Agamennone un pessimo padre.

 

La linea che separa Olga da Medea è segnata dall’intenzione con cui reagiscono all’abbandono. Olga le sbaglia tutte, ma le tenta tutte, buone o cattive scelte che siano. Di lei Ferrante scriverà a Goffredo Fofi che «non vuole essere né Anna Karenina né una donna spezzata […] Ma reagisce, si risolleva, vive.»

 

Dal canto suo Medea sa che la strada intrapresa è la più spregevole: «Comunque, devono morire, e poiché è necessario, li ucciderò io, che li generai.» Il suo desiderio di vendetta viene appagato solo quando lo si persegue fino alla fine. Medea non è pazza, è fin troppo lucida e non è immune ai tentennamenti. Molte volte, nel corso della tragedia, si interrogherà sul da farsi. Giudichiamo il suo operato sulla base della nostra mentalità, ma provando per un secondo a immedesimarci in lei, ci risveglieremmo femmine storte in terra straniera, con il sangue di un fratello oramai secco sotto le dita e la testa annebbiata da incantesimi. C’è una città intera che vuole mandarci via, l’uomo per cui abbiamo scelto di distruggere non ci ama più di quanto ami la sua gloria in terra greca. Abbiamo un giorno di tempo per scegliere: o noi o i bambini. Quei bambini che sono nostri, soprattutto nostri, ma questo non lo sa nessuno.

Rispondi