Una poesia notturna, un’esoterica prosa

In copertina: “Disjointed Narratives of Enchantment: Vol IV”, Ed Perkins

 

Analisi del romanzo lirico “La foresta della notte” di Djuna Barnes: esempio di prosa in poesia.

di Monica Fasano


 

Una donna dal corpo zaffiro s’arcua sullo sfondo ocra. Il ventre e i seni si arrotondano seguendo questo movimento finché i piedi, sfiniti dal tanto tirare, posano le dita sul suolo del papiro. È così che nell’Antico Egitto veniva rappresentata Nut, la dea del cielo stellato. Una donna che contiene in sé l’oscurità. E proprio per questo, sua potrebbe essere la voce narrante del romanzo lirico di Djuna Barnes, La foresta della notte, che così riecheggia sul limo del Nilo:

 

“La notte fa qualcosa alla tua identità, anche mentre dormi. [L’essere umano] dorme in una città di Tenebre, membro di una setta segreta. Non conosce né se stesso né chi lo precede in avanscoperta, combatte da forsennato una dimensione terrificante e smonta, miracolosamente, a letto. Il cuore gli capitombola nel petto, in quel posto buio!”  

 

La notte ammalia, anche terrorizza, rende esoterico il giorno. Non a Tebe, però, ma tra la Parigi e la New York degli anni Venti è ambientato il libro di Barnes che si apre con la descrizione della nobile casata Volkbein. Conosciamo Guido, il conte capofamiglia, la moglie Hedvig e il figlio Felix. Seguiamo la vicenda di Felix sino al matrimonio con la «bella schizofrenica» Robin, una figura pervasa da un «tragico anelito a essere trattenuta, perché si sapeva smarrita».

Da qui il testimone passa a lei. Suo sarà il fulcro instabile delle vicende narrate, tra coaguli amorosi e immersioni nel lato oscuro della personalità. La narrazione pare, infatti, una staffetta in cui il protagonismo passa, come la fiaccola olimpica, di mano in mano, tra i tanti imprevedibili personaggi, attori che sorvolano su una storia che in realtà non c’è davvero, dato che l’intreccio è il semplice vivere nei loro moti confusi e non direzionali. Sono sguardi a volo d’uccello che compiono, innervositi dall’assenza di intrico narrativo, profonde picchiate sulle figurette grottesche, in cui si immergono stillandone fuori le più taciute emozioni; come Nora, la prima amante di Robin, una donna di cui sappiamo che  

“l’equilibrio della sua natura, selvaggia e raffinata, dava al suo teschio altero un’aria compassionevole. […] Nora era per destino una di quelle persone che vengono al mondo sprovviste di tutto.”  

 

Queste voci, criptiche come geroglifici, parlano attraverso la penna di Barnes sotto forma di poesia in prosa, un genere letterario nato a fine Ottocento dal poemetto Spleen de Paris di Baudelaire pubblicato nel 1864. Un genere che ha avuto un nome solo nel 2009 quando Jean-Marie Gleize l’ha scelto per indicare tutti quei testi sincretici che, amalgamando metrica e narrativa, hanno l’obiettivo di indagare la frattura lirica e la sperimentazione letteraria del proprio tempo. Sulla scia di Gleize, anche Paolo Zublena, sei anni dopo, dichiara quanto sia essenziale «intendere [questo] lessema complesso come costituito da due concetti […]: poesia come un valore di genere letterario, prosa con un valore formale» (Poesia in prosa /Prosa in poesia). Quei testi cioè che, in antitesi al modello lirico tradizionale, “partono” dal metro per dissolversi nella scrittura senza versi risultando, infine, né l’una né l’altra cosa. Scritture che, formalmente, appaiono come romanzi ma che contengono lirica sciolta al proprio interno, opere che non si vogliono definire fino in fondo, ibridi per irriverenza rispetto al canone.

Di questo amalgama è permeata la Foresta della notte. Lo conferma T.S. Eliot nell’introduzione del 1937, presente nell’edizione italiana Adelphi, affermando che il libro «piacerà innanzi tutto ai lettori di poesia». Eliot intende la prosa di Barnes come una forma artistica potenziata a livello comunicativo grazie alla propria tendenza lirica che le concede un unico e impattante «ritmo di prosa che è anche stile di prosa e un disegno musicale che non è quello della poesia». Una scrittura a metà. Questo stile, lontano dalle mode americane da cui proviene Djuna Barnes, è in lei incoraggiato da un viaggio compiuto nel 1921 a Parigi. Qui, entrando in contatto con il modernismo europeo e con le sue suggestioni e sperimentazioni, Barnes riesce a dar vita a una scrittura avversa al disincanto letterario degli Anni Ruggenti, una scrittura oscura che destabilizza.

Le incertezze poetiche di quegli anni erano infatti tante, dalla fragilità delle strutture narrative all’instabilità del verso libero, dal decadimento della figura del poeta primottocentesco sino alla paura che l’ibridazione dei generi fosse la morte del grande e bello scrivere. All’interno di questo quadro frammentato Barnes si fa portavoce di una poesia in prosa ante litteram, modernista, riuscendo a narrare, come scrive Claudia Crocco, la crisi della lirica della prima metà del Novecento, «rappresentando il modo in cui la realtà viene percepita da un soggetto, alla luce della sua inevitabile frammentazione interiore» (La poesia in prosa in Italia. Dal Novecento a oggi). Dalla sua scrittura, come ideogrammi egizi in cui le forme si affastellano, emergono significati complessi che si fa fatica ad afferrare, o se ne coglie solo qualche sprazzo, in un disperato tentativo di dare ordine a qualcosa di evanescente:  

«Che ometto buffo» disse qualcuno. «Non la finisce mai di parlare, e mette sempre tutti nei guai a forza di scusarli perché non riesce a scusare se stesso – la Bestia Acquattata, che viene fuori di notte…»  

 

La voglia di sperimentazione si manifesta in giochi linguistici che investono tanto l’ambito della sintassi quanto quello delle immagini. Barnes, prendendo a piene mani dal mondo lirico, sceglie, infatti, di scomporre sul piano formale soggetti e oggetti. Questi elementi risultano, così, visti da punti di osservazione insoliti, assemblati e ricostruiti in maniera destabilizzante. Attraverso una struttura a matrioska ogni storia è incasellata in un’altra, in un rimando ampio di situazioni e personaggi già noti: passanti che diventano – per qualche pagina – protagonisti. Questi rapidi passaggi sembrano riprodurre una situazione di simultaneità dove i personaggi sono, allo stesso tempo, nell’azione che compiono e in quella successiva, all’inizio della storia e alla sua conclusione. Alla dislocazione dell’io si associa di conseguenza la frammentazione sintattica, una tensione perenne tra le vicende e la lingua con cui sono narrate: periodi lunghissimi, poi digressioni e punti esclamativi, punti e virgole, ancora incidentali e parentetiche:  

“Ma guarda un po’ che ha Dio di farmi tornare in mente certe cose! […] Me lo vedo […] tatuato dalla testa ai piedi di tutto l’ameublement della depravazione! Inghirlandato di boccioli di rosa e di simboli demoniaci… che spettacolo! […] (E so quel che dico, nonostante tutte le chiacchere)”  

 

Del contesto lirico non mancano neanche le ripetizioni foniche che, ripiegandosi su se stesse, producono una sorta di ritmo di prosa, una cadenza melodica spezzata, però, dalla linearità della frase che non è verso. Nella poesia in prosa non è la segmentazione frasale ciò che importa, ma qualsiasi tipo di frantumazione che permette di vedere le parole come gruppi di testo isolati. La scissione sintattica e la ridondanza fonica nella Foresta della notte suonano così:  

Chissà, forse avrà anche preparato le statue” “Le statue?” “Le statue viventi.”  

 

Queste immagini ripetute, iconiche e icastiche tipiche della poesia, appaiono come scene-inquadrature traslate in frasi. Dal mondo cinematografico la Foresta della notte riprende, infatti, l’idea del testo-sceneggiatura: primo piano su dettagli salienti e azioni particolari, campi lunghi sulla notte, scorci. Il tutto è orchestrato dalla direzione di regia di Barnes che utilizza la penna come una cinepresa.  

Assorto nelle spire di questa nuova inquietudine Felix si voltò. La ragazza si era alzata a sedere. Riconobbe il dottore. L’aveva visto da qualche parte. Ma così come ci si può servire per dieci anni in un negozio e poi non riuscire a inquadrare il proprietario se lo si incontra per strada […] perché il negozio è una porzione della sua identità, essa si sforzava di inquadrarlo ora che lui era uscito dalla sua cornice.”  

 

In questo modo gli io narranti della Foresta della notte si fanno portavoce di un discorso polifonico e universalmente umano che, di volta in volta, diviene all’occasione comico o tragico, dissacrante o mitizzato. Questa moltiplicazione di voci rende i personaggi dei teatranti grotteschi che, come in uno stream of consciousness, si muovono in un continuo fluire di identità. Come scrive T.S. Eliot: «Questo libro non è una semplice raccolta di ritratti isolati; i personaggi sono tutti strettamente legati l’uno all’altro, come accade nella vita reale». Sono creature decentrate quelle di Barnes, derelitte e scarti sociali alla ricerca di un sé, imbrigliate in vite sbagliate, figure bastarde di quel Pirandello modernista che le rende, di volta in volta, personaggi in cerca del proprio autore o simulacri d’identità mutevoli e scambiate. Tra questi si staglia Robin, la giovane moglie del Conte Felix che, dopo la nascita della loro figlia, scappa con l’amante per poi, di nuovo, sentirsi stretta in quelle vesti, e tentare un nuovo amore. Robin è la fuga dall’ordine morale, il caos selvaggio che svetta contro i dettami delle regole convenute, contro i rituali limpidi del giorno. Robin è il buio, un personaggio notturno che solo nell’ombra può esprimere la propria essenza:  

“Era notte inoltrata […]. Il cane emise un ululato di disperazione. […] Anche lei si mise ad abbaiare, strisciandogli dietro – abbaiava in un accesso di risa, osceno e toccante. […] E lei rideva mostrando i denti e guaiva con lui […] finché non cedette, lunga distesa, le mani accanto al corpo, la faccia voltata e piangente; e anche il cane allora cedette.”  

 

Una libertà ancestrale quella di Robin, un istinto naturale che solo gli animali non umani riescono a vivere fino in fondo. Un altro personaggio oscuro è il dottore Matthew O’Connor che, come una macchia d’olio poco concentrato s’espande non molto visibile per tutta la narrazione, fa da sfondo e da spalla portante ai protagonisti per imporsi, in realtà, come colonna del racconto: anima notturna nel buio di tutti. Il dottore è un occhio sopraelevato, quello sguardo d’uccello di cui si parlava prima. Figura che incarna l’unione di un maschile dato alla nascita e un femminile creato da sé. Il dottore rappresenta la possibilità di muoversi tra i mondi, del genere e della società, la capacità di essere uomo di giorno, alla luce delle relazioni sociali convenute, e identità fluida di notte:  

“Essere colpito come carne d’uomo, ma cadere come una fanciulla, che chiama la mamma nella notte.”  

 

Tra tutti i personaggi che tra le pagine si perdono nelle proprie parole, quello che maggiormente si lascia andare a disquisizioni filosofiche è proprio il dottor O’Connor che racconta a noi di sé e narra di sé e di altri personaggi ad altri personaggi ancora. Sembra quasi un secondo narratore:  

“La mia guerra mi ha portato molte cose; lasciate che la vostra ve ne porti altrettante» dice a un certo punto il dottore, e poi prosegue: «La vita non si lascia comandare, chiamatela con quanta voce avete, lei non si rivelerà.”  

 

E la sua, di voce, è come quella della vita, a volte immediata a volte lirica. A momenti di grottesca quotidianità alterna spicchi di lirismo così che prosa e poesia «si alternano […] per rendere la frammentarietà della percezione della propria identità rivelando un’incertezza» esistenziale. (Crocco). Queste lunghe riflessioni, esplicitate dal narratore onnisciente, sono l’ossatura del libro. Pochi gli eventi, esiguo l’intreccio.

Di sfondo però c’è sempre la notte. In una temporalità deformata a rigore di poesia, per cui il giorno sembra essere bandito, la lettura getta in un mondo di complete tenebre. Quando il buio cala le insicurezze umane s’innalzano sulla ragione, emerge l’incertezza del vivere, la sicurezza di una fine. Da qui il bisogno di sentire che qualcosa di noi resta, che nonostante l’oscurità il ricordo del sole rimane. E proprio la memoria, specie quella delle cose lontane, è un elemento ricorrente nella poesia in prosa di Barnes: la rimembranza di un amore perduto, di una casata nobiliare in declino, di una vita che si è vissuta solo in sogno, di un tempo ormai andato:  

“Che cos’è un rudere, se non il Tempo che si libera dal peso del resistere?» si domanda infatti il dottore, e il suo interlocutore allora risponde che il tempo è simile a una ragnatela: «una ragnatela di tempo intorno a un monumento antico.”

 

 Traslato dall’ambito lirico è, infine, l’utilizzo di immagini simboliche, soprattutto quelle appartenenti al campo semantico del titolo: la notte, la foresta, il sogno. L’ambientazione notturna dà alle vicende un alone mistico che sfrutta il contrappunto fra luce e buio, sole e luna, per caricare di valenze significative gli avvenimenti. La notte rende vivi gli incubi e veicola il linguaggio dell’inconscio, in contrasto con la lingua solare della razionalità. Ma la mattina, nel fluire lirico di Barnes, non arriva mai. La notte è un momento eterno, un esplodere continuo degli impulsi dove le persone si rivelano nude nella propria vera essenza. È l’attimo dove avvengono le conversazioni e i dialoghi che penetrano a fondo l’essere umano in una distanza con l’assoluto che si azzera:  

“Le notti di un periodo non sono le notti di un altro. E le notti di una città non sono le notti di un’altra. […] La notte e il giorno sono due viaggi.”  

 

E i viaggi conducono in luoghi meravigliosi, in zone mai esplorate, in boschi primordiali. La foresta di cui parla Barnes, l’arcana «foresta di simboli» citata da Baudelaire nei Fiori del male, è un bosco fiabesco: un’immagine, un luogo limbico, l’emblema di un passaggio o di una stasi spazio-temporale in cui i personaggi si ritrovano. Come nelle fiabe, infatti, «il bosco, benché allestito come luogo fisico, vale soprattutto come spazio concettuale, caratterizzato dalla presenza di personaggi speciali e dalla possibilità che accadano tipi di eventi non possibili in altri spazi» (Ferraro, Teorie della narrazione). Come Robin che  

“percorreva l’aperta campagna […] strappando i fiori, parlando sottovoce agli animali, […] Qualche volta dormiva nei boschi; il silenzio provocato dal suo arrivo veniva di nuovo infranto da insetti e uccelli che rifluivano sulla sua intrusione.”  

 

La foresta, sia come luogo fisico sia come momento narratologico, rappresenta un punto di svolta: segna l’entrata nel mondo-altro rispetto alla realtà, suscita lo sbalordimento. Il bosco è il posto dove tutto può accadere, superato sul piano della meraviglia solo dal mondo dei sogni. Ed è il sonno, inteso come passaggio di frontiera da uno stato di veglia razionale a uno di irrazionale torpore, a essere il portale verso il mondo onirico, un limbo. Il sognatore man mano si adegua a questa nuova modalità d’esistenza, comincia a farne parte e ad agire in sintonia con le nuove leggi; così fanno i personaggi di Barnes che sono tutti sognatori. Lo stesso dottore definisce i sogni una «pigmentazione dei fatti». Chiunque nel libro sogna follemente qualcuno o qualcosa, vivendo delle proprie ambizioni, spesso chimere, e rincorrendole in uno stato allucinato di dormiveglia perché  

“ogni giornata è pensata e calcolata, ma la notte non si premedita. […] La notte: «Attenti a quella porta oscura!»”  

 

La notte e la poesia restano oscure, come la dea egizia Nut, che ingoiava il sole di sera per partorirlo di nuovo la mattina seguente in un ciclo eterno di fine e rinascita. Sta alla prosa aiutare il buio a districarsi attraverso accenni appena percettibili di luce-senso.

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