In copertina: Gancio per indumenti, bronzo intarsiato con oro e argento e inserto con giada, manufatto dell’epoca Zhou, 770-221 a.C. – Art Institute of Chicago
Può un’antica filosofia di governo cinese fornire un modello di convivenza mondiale che scongiuri lo scontro tra l’Occidente in decadenza e le nuove potenze in ascesa?
di Simone Furzi
Nell’XI secolo a.C. il piccolo clan degli Zhou del nord-ovest della Cina, alla guida di un’ampia coalizione, rovesciò il regno degli Shang e assunse il governo della ricca Pianura sul tratto inferiore del Fiume Giallo, quella “terra del centro” (Zhongguo) che dà il nome alla Cina. Essendo una piccola popolazione al comando di un vasto territorio, però, gli Zhou furono costretti a basare il proprio potere, differentemente dai loro predecessori, non sulla supremazia militare, ma sulla capacità diplomatica, architettando “un sistema di cooperazione a lungo termine con gli altri Stati”: il tianxia, letteralmente “tutto ciò che è sotto il cielo”.
A questo antico concetto si ispira Zhao Tingyang, professore all’Istituto di filosofia dell’Accademia cinese delle Scienze sociali, mandarino senza imperatore determinato a gettare un ponte d’ulivo tra est e ovest, che, in un momento storico di crescenti tensioni internazionali, cinga il mondo come muraglia e lo protegga dalle orde dell’apocalisse. La sua opera magna Sotto il cielo. Tianxia: un antico sistema per un mondo futuro, pubblicata in patria nel 2016 e poi tradotta in francese, tedesco e inglese tra il 2018 e il 2021, è uscita in italiano nel maggio 2024, per i tipi della Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini editore, nella collana Civiltà dell’Oriente.
La curatrice, Alessandra Cristina Lavagnino, importante sinologa già ordinaria di Lingua e di Cultura Cinese all’Università degli Studi di Milano, ha cercato di rendere la forza evocativa del testo “nella cui trama si innestano formule classiche della Cina imperiale insieme a spericolate costruzioni lessicali che attingono alla contemporaneità”, riportando i termini più significativi in lingua originale, nella forma fonetica semplificata dei caratteri (pinyin) con accanto i sinogrammi corrispondenti, per esplicitare visivamente “la capacità creativa che dai possibili accostamenti scaturisce non solo per le formazione lessicale ma anche per il procedere del ragionamento […], che altrimenti potrebbe forse apparire didascalico, ripetitivo, o persino ridondante”.
Lo stile che Tingyang imprime al suo scritto somiglia in effetti a un vortice spiralico dove l’argomentazione “balza in avanti” attraverso l’uso di metafore, esempi e formule rituali, partendo dalla filosofia e passando attraverso la storia per approdare alla politica. Matrice dell’intero vorticare, il tianxia, prima di essere declinato al presente, viene descritto nella sua struttura originaria.
Colonna portante di questa struttura filosofico-politica era “l’internalizzazione” (neibuhua) di ogni entità aliena al regno degli Zhou, finalizzata a creare una struttura istituzionale universalista, che tenesse conto degli interessi di tutti “i mille paesi dei quattro mari”, ovvero del mondo allora inteso, e li componesse in un’armonia pacifica. Altri elementi cardine erano il governo attraverso la virtù (dezhi – essenzialmente, la distribuzione equa dei benefici materiali), l’armonizzazione di interessi e progetti comuni (xiehe), l’ascolto del “cuore del popolo” (minxin – accezione approssimabile alla volontà generale di Rousseau), la ripartizione degli insediamenti territoriali mediante “assegnazione del sigillo” da parte del sovrano (fengfeng) e il rispetto del cerimoniale (liyue).
Il sistema del tianxia ha continuato a influenzare fortemente la politica e la filosofia cinesi, nonostante si sia consunto come strumento di governo nel corso dei secoli perché non più capace di favorire lo sviluppo economico indispensabile per la distribuzione di nuove terre e di risorse, e sia stato in ultimo definitivamente sradicato al termine del lungo periodo degli “Stati combattenti” (476-221 a.C.) dal primo imperatore di Cina Qin Shi Huang.
Tra gli elementi più significativi originati da quel sistema: l’importanza simbolica, commerciale e culturale della Pianura centrale, contesa in armi per ottenere il controllo dell’impero in quella che i classici della tradizione chiamavano “vortice della caccia al cervo” (zhulu zhongyuan), animale nobile, simbolo di potere; il principio di armonia con la metafisica naturale, il “cielo che sta sopra” (shangtian), ispiratore del Dao, “la Via” della continua mutazione su cui si basa la filosofia taoista; la cura dell’ordine e della ritualità codificati da Confucio nei suoi Dialoghi.
Orecchino di giada a forma di cervo, manufatto dell’epoca Zhou, 1110-900 a.C. – Art Institute of Chicago
Al tianxia Tingyang si ispira per disegnare una ontologia della “grande armonia” (datong) da opporre alla conflittualità dialettica tipica del pensiero occidentale, “che sia la concezione della giungla di Hobbes o quelle della lotta di classe di Marx”. All’istinto antagonista dell’homo homini lupus vuole sostituire l’istinto cooperativo di Laozi; alla razionalità individuale quella relazionale; all’ottimo paretiano – che prevede un guadagno per alcuni a patto che nessuno subisca una perdita – il “miglioramento confuciano” – dove a un guadagno per alcuni deve corrisponderne un altro non troppo inferiore per tutti gli altri; al panta rei basato sul polemos dialettico di Eraclito, il quieto mutamento (yì) taoista dove “tutti gli esseri siano nel loro divenire” (sheng sheng). Convinto sia autentica solo una politica che miri alla prosperità e alla sicurezza comune – “desiderando essere saldo fa sì che lo siano gli altri, volendo progredire fa sì che gli altri progrediscano”, ancora Confucio – l’autore cinese derubrica la teoria della lotta a tecnica (jishu) ed eleva quella della pace ad arte (yishu), definendo la guerra “sconfitta della politica” e non sua “continuazione” come nel famoso brocardo di von Clausewitz. Sconfessa così, oltre al teorico militare prussiano, anche il timoniere Mao, che dal canto suo affermava: “la politica è guerra senza spargimento di sangue e […] la guerra è politica con spargimento di sangue” (Mao Tse-tung, Sulla guerra di lunga durata (maggio 1938), Opere scelte, Vol. II, Casa editrice in lingue estere, Pechino, 1971, p. 209).
Quello di Tingyang è un progetto di “mondializzazione” (shijiehua) delle variegate civiltà umane, dove il mondo si fa “soggetto politico” – anziché “oggetto economico”, come nella globalizzazione – garante della multiformità di esistenze (duoyangxing) e di un interesse comune superiore a quello dei singoli paesi; con le parole del filosofo antico Xunzi: “sotto il cielo-tianxia fioriscano i comuni benefici e scompaiano i comuni disastri”. A guida di questo sistema mondiale il professore immagina istituzioni rinnovate – diverse dalle Nazioni Unite “subordinate alla logica politica dei moderni Stati sovrani” – che operino primariamente per il controllo dei grandi vettori di sviluppo capitalistico: tecnologia, finanza e informazione. Secondo Tingyang, questi tre elementi si sono già sottratti all’ordine democratico e iniziano a distruggere anche quello naturale, tra armi letali e sfruttamento ambientale. E lo fanno sospinti da quell’avido egoismo, che rompe l’armonia senza la quale “non c’è vita”, per usare le parole di Guanzi, grande saggio della tradizione e fondatore del legismo, filosofia politica della primazia normativa e dell’esercizio pragmatico del potere, a cui anche l’attuale presidente Xi Jinping si ispira.
I tre destrieri eversivi del capitale, però, possono correre solo grazie alle strade consolari dell’impero. E nonostante Tingyang sia convinto che, come il capitalismo descritto da Marx, anche l’imperialismo “si scava la fossa con le proprie mani”, teme tuttavia possa nascondere un terribile venenum in cauda: il ricorso alle armi. Pertanto grande è la sua preoccupazione per lo “scontro di civiltà” preconizzato dal politologo statunitense Samuel P. Huntington (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1996). E ancor più lo è per la caduta di Cina e USA dentro la trappola di Tucidide, espressione usata dal collega Graham Allison (Destinati alla guerra: possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, Fazi, 2018) nel descrivere la guerra in cui più volte nel corso della storia si sono trovate a fronteggiarsi, loro malgrado, egemoni in crisi e potenze emergenti, come accaduto nel Peloponneso (431 – 404 a.C.) tra Atene e Sparta. L’architettura del tianxia è pensata proprio per scongiurare questi pericoli e sostituire all’alterco il dialogo. Ma perché sia efficace il dialogo deve essere franco, quindi, non può mancare della critica che, in particolare nel terzo e ultimo capitolo, quello più politico, si fa precisa e circostanziata verso l’imperialismo occidentale, “che ha l’ambizione di governare il mondo, ma non ha una visione del mondo”. Nella sua disamina il professore individua gli elementi caratterizzanti del Western imperialism: fideismo monoteista che intreccia laicismo e cristianesimo, egemonia del dollaro, sistema commerciale non equo ereditato dall’impero coloniale britannico, potenza militare, retorica dei diritti umani. E ne sottolinea le ipocrisie: “si scatenano guerre con la scusa della pace”, “si distruggono la libertà e la democrazia con la scusa della libertà e della democrazia”.
Letto da questa angolatura, il libro pare allora scritto proprio per le genti dell’ovest, perché siano messe di fronte alla consapevolezza che una pacificazione comporta il recedere dalla loro presunzione di superiorità, il rinunciare ad alcuni loro privilegi, l’aprirsi a un confronto paritario in cui ridisegnare insieme l’ordine del potere vigente. Nella gran parte del mondo l’universalismo anglo-europeo è ormai disvelato, con le parole dello stesso Huntington, citate dall’autore: “l’Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata”. A sostituirlo c’è un nuovo universalismo, dalle radici altrettanto profonde, dotato di un proprio vocabolario e di una crescente attrattività. Un universalismo che l’autore ci racconta come armonizzante, dalle larghe tese, posato sullo sfondo della volta celeste, placida e solenne, esponendosi così alle critiche di voler imporre “la concezione cinese, molto particolare, del tianxia per applicarla al mondo”, senza considerare “il punto che non tutti vogliono essere inclusi” (cfr. W. A. Callahan, E. Barantseva, China Orders the World: Normative Soft Power and Foreign Policy, Hopkins University Press, 2011). Critica forse faziosa ma non infondata.
In effetti Tingyang pare attingere al passato glorioso della tradizione per reinterpretare e riqualificare il presente: “conquistare il tianxia non vuol dire soltanto sottomettere qualcuno insieme con la sua terra, ma far sì che la propria strada venga seguita anche dagli altri”, altra citazione di Xunzi. Un uso della storia tipico delle potenze egemoni, in essere o in divenire, a cui anche l’attuale dirigenza della Repubblica popolare si dedica con dovizia; basti pensare alla costruzione del “socialismo con caratteristiche cinesi” o alla rivincita dopo il “secolo dell’umiliazione” (periodo di sottomissione subito da parte delle potenze coloniali occidentali e dal Giappone tra il 1839 e il 1949). Dopotutto il tianxia ridisegnato dall’autore prevede pur sempre un centro da cui emana e intorno a cui possa orbitare, un centro capace di includere gli esclusi nella distribuzione della ricchezza e di garantire loro sicurezza. Obiettivi questi ultimi propagandati nel progetto della “Nuova via della seta” (yi dài yi lù – “un nastro una via”), strategia per proiettarsi oltreconfine di una Cina che ambisce a guidare i paesi del cosiddetto Sud globale e a portare, loro e se stessa, sul proscenio mondiale, interrompendo il dominio dei paesi occidentali e dei loro stretti alleati.
A conclusione della sua articolata teorizzazione sul “buon mondo” che potrà essere, Tingyang riconosce di non essersi fermato a considerare come “un buon mondo possa garantirci una buona vita, una vita che nel suo percorso possieda un proprio significato”. Si chiede “quale genere di riti e di musica potrebbe portare in salvo le nostre esperienze”, ma non si dà risposta, come non riuscì a darsela nemmeno Confucio. Dopotutto, come fa dire Shakespeare al tormentato Amleto rivolgendosi al fido Orazio “ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia”. In fondo, anche il Bardo seguiva il Dao.