La dialettica di Emanuele Atturo

Emanuele Atturo

In copertina: Frame preso da una diretta dell’Ultimo Uomo

 

I ripensamenti del lavoro culturale nel mondo sportivo

di Lorenzo Pedrazzi


 

Da anni, Emanuele Atturo segue le imprese dei più grandi sportivi del mondo scrivendo e editando Ultimo Uomo, l’unico posto in Italia in cui si parla di sport in modo non tossico, argomentato, fondato. L’ho incontrato per parlare di un testo lungo che ha scritto per la collana Quanti di Einaudi, esperimento editoriale che chiede alle stelle nascenti del panorama culturale italiano di intervenire su argomenti vari. Il tema dell’ultima raccolta è “Visioni”, Atturo ha scritto “Visionari”, un’analisi di iconici gesti sportivi – il “flu game” di Jordan, il tacco di Guti – che ci riassume in uno spazio breve l’estetica e il lavoro di ricerca formale sulla scrittura sportiva di Atturo e di Ultimo Uomo: «Le nostre abitudini di fruizione vengono destrutturate; senza piano narrativo, Zidane appare astratto e isolato, e possiamo osservarlo con un’attenzione diversa dal solito». 

Atturo scrive così perché è laureato in Semiotica a Bologna e questo è il dato più importante del suo curriculum, l’unico che vuole davvero far sapere al mondo, quello che cita immancabilmente quando viene intervistato. Il campo semantico del suo corso di studi compare quasi sempre nei suoi scritti- nel brano citato svetta un “destrutturate”. 

Eppure, come scrittore e giornalista non si pone mai come intellettuale tout court. Nell’incontro da cui nasce questo pezzo,  mi dice esplicitamente: «Io credo che l’obiettivo dell’Ultimo Uomo non sia quello di creare un intervento intellettuale nella cultura». Lui nasce nella seconda generazione del mondo blogettaro – fonda il blog Crampi Sportivi nel 2012 con dei compagni dell’università, collabora con l’aspirazionale Dude Mag e altre testate simili per poi approdare all’Ultimo Uomo nel 2015, a due anni dalla fondazione. In questi nove anni, anche grazie al suo contributo di autore e vicedirettore, il sito è riuscito a prendersi una nicchia sempre più ampia di pubblico in cerca di una scrittura sportiva sofisticata. L’ammirazione è diventata culto, la nicchia li segue con fervore e dedizione tanto che nel 2022 sono riusciti a diventare indipendenti, dopo una parentesi sul sito di Sky, grazie al sostegno esclusivo degli abbonamenti. 

Per dirla tutta, ho chiesto di intervistarlo perché sono un abbonato e li seguo dalla fine del liceo. Ma non sono andato da fan: sono andato perché hanno avuto un ruolo importante nella mia formazione nel bene e nel male, e volevo, parlando con Atturo, provare a far un po’ di luce sul bene, e soprattutto sul male. 

 

Il bene è chiaro: c’è una frase molto famosa di David Foster Wallace, che potrebbe essere il motto dell’Ultimo Uomo: «Guardare la performance non è abbastanza», ha scritto. «Vogliamo entrare in intimità con tutta quella profondità. Vogliamo entrare dentro di loro; vogliamo la Storia». 

L’”intimità con tutta quella profondità” è quella che sono riusciti a dare a tantissimi momenti sportivi, ma soprattutto al mondo del calcio dove la «sottovalutazione dello sport come possibilità che lo sport possa parlare del sociale, del politico e possa parlare di significati più ampi» – così mi spiega Atturo, non Wallace – era impossibile da non notare. 

La risposta a questa sottovalutazione è quella che Atturo ha chiamato «una tensione verso il fuori». La messa in atto dell’intimità con la profondità wallaciana.  

Infatti, nel libro quando parla di affordance, cita Leopardi, quando parla di una serie di telecamere intorno a Zidane, cita il Panopticon, quando parla degli artisti “on fire” cita Bob Dylan alla cerimonia per il Nobel. 

Gli esempi di questa “tensione” nei pezzi dell’Ultimo Uomo si sprecano: in un pezzo di Marco D’Ottavi, che si chiama “I movimenti di mercato più assurdi della settimana”, che potrebbe essere un pezzo da duemila caratteri su un sito qualsiasi di una rivista sportiva online, diventa un’occasione per citare il “capitalismo” alla terza riga. 

Citare il capitalismo in un pezzo sul calciomercato è la rappresentazione di una voglia di smetterla di considerare i lettori di giornalismo sportivo come dei pecoroni e di conseguenza il giornalista sportivo come un clickbaiter fuori dal mondo.  

Così sono riusciti anche a ripoliticizzare il loro ruolo, scrivendo di razzismo, di Palestina e chiedendosi quasi spasmodicamente se lo sport durerà attraverso la catastrofe climatica.  

In un pezzo che si intitola “Un solo errore può cambiare la carriera di un calciatore?”, l’autore, Dario Saltari, cita David Foster Wallace (sono obbligati a farlo quando si parla di Federer), il Gattopardo, Succession, Modigliani, American Gods e Anton Chigurh.  

Un altro esempio possibile di questo stile potrebbe essere Daniele Manusia che scrive questo in un pezzo su Noah Lyles: 

«L’opacità della realtà ci nasconde qualcosa a cui cerchiamo di arrivare con le parole, come pescatori che di notte lanciano l’amo nelle acque scure, sperando di pescare un pesce che non sappiamo neanche se esiste»  

Per poter scrivere di sport così come l’Ultimo Uomo bisogna leggere molto, essere ironici e avere una forte spinta da tuttologi. 

Bisogna quasi non voler scrivere di sport, usarlo come trampolino aristotelico per diventare delle figure culturali importanti, «per prestare la propria «enciclopedia dei segni» a chi ascolta o legge» mi dice Atturo. Qui quasi quasi De Mauro, per davvero. 

Una tendenza tipica di una parte del mondo intellettuale italiano, stanziato principalmente a Roma, che ha avuto fortuna negli anni ‘10 di questo secolo.  

Un coacervo di scrittrici e scrittori provenienti da blog e magazine, in particolare dal sopracitato Dude Mag, il cui dogma era quello di ritagliarsi un proprio tema preferito, di solito pop, e cercare sempre riferimenti che gli creino uno scheletro intellettuale intorno. Rendendo il loro intervento nella cultura assimibilabile a quello di un intellettuale, ma senza la spocchia che ne deriva. 

 

Il libro di Emanuele Atturo rappresenta la summa teologica di questa scuola. 

Parte da una domanda difficile “Cosa succede agli atleti in stato di grazia?”. 

Domanda a cui il libro alla fine non risponde o risponde in parte. 

Come dimostra questo passaggio verso la fine del testo: 

«Quando però si tratta di spiegare queste qualità intangibili, le cose si fanno complicate. Non tutti sono Dennis Bergkamp, con quel suo modo analitico di scomporre i gesti tecnici. Spesso gli sportivi tagliano corto: «Ci ho provato, è andata bene». Come possono creature tanto eccezionali essere così aride e indifferenti quando si tratta di parlare della propria arte? Il fatto è che lo sforzo che gli stiamo chiedendo è improbo: provare a visualizzare la propria attività, per lo più inconscia, fuori da sé, riaprire l’abisso cartesiano tra mente e corpo».  

Ma la volontà dell’autore non era quella di trovare una quadra o di scrivere un libro di Damasio o Vallortigara, ma di andare oltre ai «termini ombrello un po’ intangibili tipo la cattiveria, l’istinto, il fiuto del gol, il genio» e creare «un’apertura a un tema». 

Atturo si destreggia nel tema con una dolcezza e una facilità che rendono la lettura molto piacevole.  

Come quando parla di un tema che può essere sterile come la tecnica di tiro di un calciatore: «Uno dei freak dello sport contemporaneo, Kylian Mbappé, negli anni ha sviluppato una tecnica infallibile per fare gol al portiere: tirare secco d’interno al primo palo, prendendo la via più breve per la porta. Di fronte a queste conclusioni i portieri sembrano congelati. Quello di Mbappé sembra un trucco, un bug del sistema». 

A volte si vergogna un po’ della complessità in cui è finito quindi vira verso esempi più facili.  

«Un tennista che ha consolidato il gesto del dritto, facendone un habit, non dovrà ogni volta risalire a tutto il processo di conoscenza necessario. Gli basterà riattivarlo di volta in volta. 

Secondo lo psicologo cognitivo George Miller: «Se dovessimo fare tutto consapevolmente non riusciremmo nemmeno a scendere dal letto al mattino». Avete presente quella scena dei Griffin in cui Peter si dimentica come ci si siede?»  

Traspare sempre l’emozione nel ripensare ad alcuni gesti atletici e una dedizione alla curiosità per il «misterioso nello sport».  

«Nel suo Elogio della finta, Oliver Guez paragona Garrincha a una mosca: tutti sapevano che avrebbe sterzato alla sua destra, ma gli sbuffi e gli ondeggiamenti che precedevano la sterzata gli permettevano di rendere l’atteso inatteso. Nell’arte del dribbling c’è una manipolazione del tempo, ma anche della visione. Vengono create immagini che non si fanno carne». 

Non è mai saccente, le tesi a cui arriva vuole che siano per tutti, per il pubblico più ampio possibile.  

Sostanzialmente il contrario degli autori che cita, cioè Nietzsche e David Foster Wallace. 

È un oscillare tra un ecumenismo di vocazione e la consapevolezza di avere un background intellettuale che ti permetterebbe di citare autori anche più complicati.  

A un certo punto nel libro usa questo esempio: «Vi sarà capitato di ascoltare la descrizione delle peculiarità di un vino da parte di un sommelier e pensare che fosse pazzo», un attacco utilissimo a cercare di divulgare concetti che potrebbero essere noiosi, tanto che sembra l’inizio di un pezzo di stand-up comedy.  

Qualche riga più in là, il campo cambia e decide di citare Charles Goodwin e il suo “sguardio professionale”, Goodwin è stato un semiologo che insegnava all’UCLA. Ha una pagina Wikipedia solo in inglese, senza foto.   

C’è una voglia neanche troppo nascosta di inserire lo sport nella sfera culturale, ma non quella dei pecoroni, quella reale, quella che conta. Senza nessuno strappo traumatico.  

«Io credo che l’obiettivo dell’Ultimo Uomo non sia quello di creare un intervento intellettuale nella cultura». 

Sebbene lo vogliano negare all’infinito, gli scrittori dell’Ultimo Uomo stanno cercando di portare sulle spalle l’immaginario sportivo-culturale che, secondo loro, era caduto in un brutto vortice di una sottovalutazione causato dal marxismo italiano degli anni ‘70. I loro modelli italiani, infatti, rimangono i vari Clerici, Brera e Bianciardi che si sono affermati nel decennio prima.  

 

A conferma di ciò, più avanti nella nostra conversazione mi spiega che un giornalista sportivo dovrebbe «creare dei riferimenti, creare un discorso, dare degli strumenti per attivare le prese di senso».  

Il libro evolve proprio come una ricerca di senso:  

«Ci stanno dei processi intangibili che noi non vediamo, che però hanno una loro logica, una loro dinamica di significato che può essere analizzata, può essere studiata».   

Gli esempi rimbalzano tra le pagine in cerca della risposta impossibile al dualismo mente e corpo: 

«L’allenatore di Phelps ha spiegato che la visualizzazione funziona come una specie di inganno che facciamo al nostro cervello. Dopo aver visualizzato molto vividamente qualcosa, la mente non saprà più distinguere tra la realtà visualizzata e quella empirica. Michael Jordan sostiene di aver provato, in carriera, più tiri nella sua testa che nel campo di allenamento». 

Atturo sa benissimo che sarà una ricerca senza fine, che il libro non racchiude nessuna risposta definitiva perché lo sport è una questione di clichès, che vorremmo che racchiudessero una risposta più profonda o più intelligente, ma non riescono a darci altro se non questo. La complessità è opzionale e non esiste se non negli occhi di chi la guarda. 

A volte pecca dello stesso peccato che aveva giurato di non compiere: quando scrive “rimangono le qualità intangibili a marcare la differenza tra un grande atleta e un genio” sono rimasto deluso, avrei voluto che mi portasse per mano a cercarle queste qualità intangibili, che è un controsenso ma è uno di quelli che avrei accettato volentieri.  

Non riesco tanto a credere che questo negare la propria vocazione intellettuale sia un segno di totale umiltà, c’è di sicuro della sana modestia ma l’impossibile rintracciabilità di una posizione politico-filosofica netta crea una fumosità opportunista in cui posso essere intellettuale finché non mi chiedono di esserlo, questo è secondo me la debolezza centrale della scrittura di Atturo e poi per osmosi imperfetta dell’Ultimo Uomo.  

Perché scrivere un paragrafo come questo: «Le affordance si dischiudono grazie agli ostacoli. Come la siepe di Leopardi, sono limitazioni che mostrano il passaggio, sono chiusure che indicano varchi. Le affordance, insomma, si aprono anche grazie agli impedimenti: la difesa schierata, la palla che rimbalza per Totti, il passaggio sbagliato, il corpo di Dabizas, per Bergkamp. Sono questi problemi a offrire delle soluzioni: dietro le inibizioni brulica un mondo di possibilità per chi le sa riconoscere. Non si tratta di un processo meccanico, causa-effetto, ma di un movimento ecologico, di aggiustamento che i giocatori devono compiere continuamente durante le partite. Il semiologo francese Eric Landowski definisce “il regime dell’aggiustamento” quello in cui il soggetto si muove senza schemi d’azione predefiniti, ma cercando una complicità sensibile con l’ambiente e le sue parti, anche attraverso l’improvvisazione» per poi sostenere che l’obiettivo «non sia quello di creare un intervento intellettuale nella cultura» 

Qual è il vantaggio di usare un linguaggio così pieno di riferimenti per poi negare di voler inserirsi in quel ambiente discorsivo?  

 

È un tipo di dialettica che Emanuele Atturo, Marco D’Ottavi, Daniele Manusia e, Dario Saltari(il Politburo di Ultimo Uomo) hanno perfezionato. 

Dietro a questa scelta non riesco a vedere una vera sperimentazione evolutiva, ciò che l’Ultimo Uomo è ora, è ciò che sarà sempre con leggere variazioni.  

Sono stati elevati al rango di magistri elegantiarum da un gruppo di persone, ormai neanche troppo piccolo. Il loro podcast più famoso, La Riserva, ha 1246 membri paganti, ovvero sia persone che sono disposte a pagare più di due euro al mese per contenuti esclusivi.  

Verso la conclusione della conversazione che Atturo mi confessa: «Il nostro obiettivo comunque è parlare al pubblico più vasto possibile, cioè non vogliamo assolutamente chiuderci in una nicchia come come fa un intellettuale». 

La postura che hanno scelto, cioè quella di oscillare tra un lessico intellettuale, qualcuno direbbe un birignao, e una pretesa invece di non sentirsi chiusi in quel ruolo forse li rende fumosi e incollocabili, ma, come direbbe un qualsiasi grigio funzionario d’azienda, con una grande scalabilità. L’obiettivo sembra chiaro e i mezzi ci sono.   

Alla fine della nostra intervista, in cui mi sembrava di spaventare o di annoiare Atturo , gli faccio l’ultima domanda “sei ottimista?”  

Pensavo mi rispondesse con un secco “no” invece ha cercato tra le parole la frase famosa di Gramsci «sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà».  

Questa risposta mi ha lasciato un po’ interdetto e finalmente le contraddizioni mi si sono poste davanti in modo chiaro: non ho capito se avevo davanti un artista dei segni del tempo, un visionario della cultura o l’ultimo resto mangiucchiato un po’ schivo di un intellettuale nei nostri giorni, in cui la cultura è morta.  

Come scrive lui alla fine del libro: “la spiegazione non è mai del tutto adeguata”.  

Leggendo Visionari ho cercato di capire come l’Ultimo Uomo è diventato una mia ossessione, insieme all’influenza discorsiva che produceva nella mia vita, ma non ci sono riuscito davvero.  
Mi sembra che Atturo, Manusia e compagni solchino una linea sottile, in cui potrebbero essere tuoi amici «perché siamo molto simili» ma forse e probabilmente non lo saranno mai.  

Hanno confortato migliaia di persone che davanti a una punizione di Recoba, un trepunti non dato a Durant o un dritto di Sabalenka, si chiedono, dopo l’euforia, perché ci tengo così tanto?  

«Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra le persone, mediato dalle immagini».  

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