Il caso Fiorella

Quando il processo per violenza carnale si costruisce sul corpo della donna

di Idarah Umana


“Giudici noi donne siamo presenti a questo processo (…). Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare. Noi chiediamo che anche nelle aule dei tribunali ed attraverso ciò che avviene nelle aule dei tribunali, si modifichi quella che è la concezione socio culturale del nostro paese. Si cominci a dare atto che la donna non è un oggetto.” 

È  il  26 aprile del 1979 e sugli schermi degli italiani compare una figura che passerà alla storia per la sua difesa dei diritti delle donne in tribunale e per il tentativo di far dialogare la politica con gli ambienti femministi. Tina Lagostena Bassi, all’anagrafe Augusta Bassi, avvocata conosciuta fino a quel momento per aver difeso Donatella Colasanti nel processo del massacro del Circeo,  fu  la prima figura istituzionale ad aver utilizzato la parola “stupro” in un’aula di tribunale. Si interessò ai diritti della donna nel fiorire della seconda ondata di femminismi, movimento che in Italia affonda le proprie radici nei primi decenni del XX secolo.  Se in quel periodo storico, scendendo in piazza, le donne esigevano il riconoscimento di diritti politici e sociali che fino ad allora erano di solo privilegio maschile, ora lo sguardo critico viene ampliato.

Sono anni di forte fermento in cui ci si interroga sul  ruolo della donna in società, sulle problematiche condivise per il solo genere di appartenenza e sui diritti riconosciuti fino ad allora solamente in maniera formale e mai sostanziale. Sono anni in cui temi come aborto, maternità, equa retribuzione, pari opportunità in ambito lavorativo, abusi e violenza carnale riecheggiano per le piazze e per le strade prese d’assalto dai manifestanti. Collettivi e movimenti femministi, che chiedevano un mondo giusto, equo e libero, rivendicavano già il proprio diritto ad associarsi occupando spazi urbani pubblici ed edifici abbandonati, quando i tribunali cominciarono a diventare un vero e proprio terreno di confronto tra i poteri dello stato e il cittadino. Ed è proprio in queste aule che Bassi, armata di diritto e spalleggiata dalle compagne, tenterà di far emergere le nuove sensibilità sviluppate nei circoli femministi, contrapponendole agli spazi di potere, ancora ostili ai cambiamenti e radicati a ideologie preesistenti, intrisi di una forte e opprimente filosofia maschilista. Intraprenderà un percorso tortuoso, colmo di ostacoli che tenterà di superare grazie alla sua capacità dialettica e conoscenza giuridica.

 La complessità di questo dialogo verrà resa la sera del 26 Aprile 1979 in un documentario trasmesso sulla RAI. Per la prima volta gli italiani in presa diretta assistono  alle modalità con cui si costruiva un processo quando il reato veniva compiuto sul corpo di una donna. Processo per stupro riuscirà a denunciare pubblicamente un’ingiustizia non relegandola più al solo piano sociale, ma ampliando la prospettiva di indagine su un piano istituzionale. Se l’autorità giudiziaria, che per antonomasia è garante della giustizia, non è in grado di essere al di sopra del pensiero popolare, come si può aspirare ad un radicale cambiamento sociale? 

Il fatto ebbe luogo un anno prima del processo, il 7 Aprile del 1977, quando Fiorella, ragazza di 18 anni – il cui cognome nel documentario viene oscurato dal bip di un segnale acustico – venne condotta da un uomo sulla quarantina in una villa di Nettuno, in provincia di Latina. Vallone Rocco, socio di una ditta di nuova costituzione, aveva illuso la ragazza di poterle procurare un impiego come segretaria, proponendole un colloquio in presenza di altri soci. La villa di Nettuno diventerà prima teatro di avance e poi, nonostante le richieste della ragazza di essere riportata a casa, di ripetuta violenza carnale da parte dei “soci d’affari”. Dopo averle restituito la libertà, gli uomini, timorosi di essere denunciati, offriranno per il suo silenzio un milione di lire. La ragazza non accetterà la somma e denuncerà l’accaduto. A distanza di pochi mesi, verranno emessi quattro mandati di cattura per reati di “ratto al fine di libidine e violenza carnale”.

Un anno dopo si terrà la prima udienza. Fin dal primo momento in aula si delineano con chiarezza le distanze culturali tra le parti. La prima scena del documentario si apre con uno degli avvocati difensori che mette con noncuranza su un tavolo 2 milioni di lire: la presenta come un’offerta seria e concreta per risarcire il danno. Annessa  ai soldi nessuna dichiarazione formale di scuse e nessun pentimento da parte degli imputati. Respingendo la somma, Augusta Bassi contrappone al gesto della difesa la richiesta di devolvere alla giovane una sola lira simbolica a titolo di risarcimento, in ragione dell’incommensurabile danno subito dalla ragazza violentata e reputando estremamente offensiva la “prassi instaurata di portare la mazzetta posata sul tavolo dei giudici”. Volgendosi poi ai presenti in aula, cita la Casa delle donne in via del Governo Vecchio di Roma chiedendo al giudice che la difesa devolva all’associazione una somma di giustizia da lui stabilita. 

La presenza del gruppo quel giorno non è casuale: l’anno precedente, per le strade e nelle aule universitarie romane erano stati appesi numerosi manifesti che incitavano i passanti a partecipare a un convegno internazionale contro la violenza sulle donne. Di colore verde e con poche ma chiare iconografie, il manifesto delineava quali sarebbero stati i punti caldi di discussione. Tra questi ricopriva particolare rilevanza una critica verticale all’apparato giudiziario, di cui venivano contestate le modalità di esecuzione dei processi. Quando l’oggetto d’accusa era una violenza carnale subita da una donna, di prassi si passava attraverso un processo per direttissima, una forma celere, che dava poco spazio alle indagini preliminari per lasciare invece largo respiro al dibattimento. Era proprio in questo momento che la difesa faceva emergere con tutta la sua ferocia le proprie posizioni, riuscendo a ribaltare gli equilibri fissati: gli imputati accusavano l’accusa che, invece, era costretta a difendersi.  Al convegno era infatti emerso come in Italia, così come nel resto del mondo, le donne non fossero messe nelle condizioni di poter denunciare la violenza a causa di una reiterazione nella trama dei processi, in cui la dialettica adottata trasformava con estrema facilità la donna, vittima di violenza, in imputata. Il processo si costruiva sul corpo della donna e  l’oggetto dell’accusa finiva per essere marginale. Maturata questa consapevolezza,  sei donne ebbero l’idea di installare delle telecamere nel tribunale di Latina per denunciare pubblicamente questo modus operandi.  

Quel giorno si conclude senza alcuna novità. Gli interventi della difesa ruotano appositamente intorno al binomio di donna quale essere supremo, divino, sempre rispettabile e stimata e prostituta che “in momenti vicini e lontani può averci visto partecipi di momenti di piacere”. Rivolgendosi così a Fiorella, l’accusa si dilunga nel descrivere dettagliatamente i fatti avvenuti in quella villa dichiarando, senza troppi giri di parole, che “la fellatio” potesse essere interrotta in qualsiasi momento, essendo a loro avviso un atto incompatibile con l’ipotesi di violenza. Senza grossi indugi, si giunge ad affermare che in tutta la vicenda il soggetto attivo era proprio lei che nello svolgimento del rapporto aveva reso passivo l’uomo “abbandonato al piacere”. La difesa si addentra anche nella descrizione dettagliata del piacere femminile, definendo il cunnilingus quale forma più alta di adorazione sessuale dell’uomo nei confronti della donna. Dunque, chi mai potrebbe compiere questo atto? Un violentatore? “Certo che no, perché questo è un atto d’amore e nulla ha a che vedere con la violenza”. 


In tutta la durata del processo, anche il giudice non cambia rotta, ma interroga ferocemente la donna, ponendole solamente domande inerenti la vita passata e i rapporti con gli uomini, insinuando come i suoi atteggiamenti provocatori e apparentemente maliziosi potessero giustificare la violenza subita.  Il susseguirsi di quello che oggi chiameremmo mansplaining, che finisce per oggettificare e vanificare qualsiasi dimensione umana di Fiorella, viene interrotto solamente da Bassi che, indignata, tenterà di far comprendere l’inadeguatezza degli interventi  dei colleghi. Nessun avvocato, dice Bassi, si sognerebbe mai in un processo per furto, di infangare la reputazione della persona derubata tirando in ballo un suo eventuale passato poco chiaro, o suoi reati di ricettazione, usura e evasione fiscale. “E allora perché, quando al posto di quattro oggetti d’oro l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, ci si permette di fare un processo alla ragazza?”. 

Il dubbio, nel corso del dibattimento, non verrà di certo chiarito. Vallone Rocco, Novelli Cesare e Vagnoni Claudio verranno condannati a un anno e otto mesi di reclusione, mentre Palumbo Roberto ad una pena di due anni e quattro mesi. Tutti e quattro gli imputati beneficeranno della libertà condizionata, non scontando completamente la pena carceraria. Le condanne, dunque, non sono state in grado di rendere giustizia a tutte quelle donne che non hanno la forza di denunciare, perché ciò che accade in aula di tribunale è la ragione della loro impotenza, la causa per cui non si denuncia. 

In questo scenario figure come Augusta Bassi finiscono per essere anomalie di un sistema giudiziario occupato da giuristi incapaci di conformarsi ai cambiamenti culturali e alle nuove sensibilità popolari. Approdando in politica, tuttavia, riuscirà a superare questo ostacolo istituzionale approvando nel 1996 una norma che interpreta la violenza carnale non più come danno morale ma alla persona. Ora ad essere leso non è più un ideale di comportamento nazionalmente riconosciuto come valido, ma la persona fisica il cui corpo ha subito la violenza. Un primo cambiamento importante che affonda le proprie radici in quei dibattimenti e che ora tende verso una dimensione di giustizia che tenga conto del singolo quale vittima di un sistema che agisce fuori e dentro un’aula di tribunale. 

 

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