In copertina: Absorbed by Light di Gali May Lucas, foto di Jacqueline Ter Haar, 2018
Una recensione di Ti seguo, romanzo d’esordio di Sheena Patel
di Sara Ciprari
i-Phone, You Tube, Myspace. All’avvento dello smartphone e dei social media, i nomi scelti dalle aziende tecnologiche per i dispositivi e le piattaforme emergenti cavalcavano il mito dell’accrescimento personale. I pronomi utilizzati come prefisso sembravano istituire un rapporto gerarchico tra il singolo utente e lo strumento, nel quale l’essere umano esercitava il pieno controllo sul mezzo.
Il filosofo francese Éric Sadin, uno dei maggiori studiosi della rivoluzione digitale, nel suo ultimo saggio (Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune) adotta la brillante metafora dello scettro di vetro e di metallo per alludere allo strumento di potere che lo smartphone costituiva al suo debutto. Come nell’antichità classica lo scettro di legno conferiva il diritto di prendere parola in assemblea a chi lo impugnava, il telefono intelligente sembrava avere proprietà magiche tali da elargire potere e prosperità a chi sapientemente lo maneggiava.
Ma trascorso ormai più di un decennio dalla nascita dei principali social network, in seguito alla disinformazione dilagante, alle ingerenze politiche, alla sorveglianza, la partita per il potere tra social media e utenti non sembra più volgere a favore di questi ultimi. Sulla scia delle osservazioni di Sadin, si può constatare come l’esercizio della libertà di espressione, incoraggiata dalle piattaforme, abbia svolto perlopiù una funzione catartica per le nevrosi dell’io, bisognoso di approvazione, a fronte dell’originale promessa di interconnessione con gli altri utenti (la rete degli amici) per un confronto dialettico costruttivo, volto a modificare il corso delle cose. Oggi si assiste ad un fenomeno di atomizzazione degli individui e al prevalere dell’espressività sull’agire politico. Regredisce anche il mito dell’autoimprenditorialità promosso da Instagram, ossia la convinzione che la carriera dell’influencer inizi in modo accidentale e fortuito, e che percorrerla sia alla portata di tutti.
È in questo ecosistema in crisi che si muovono i protagonisti di Ti seguo (I’m a Fan, trad. Clara Nubile, Atlantide Edizioni), opera prima di Sheena Patel, scrittrice britannica di origini pachistane. L’opera, a metà tra un memoir e un pamphlet polemico, offre uno spaccato della società virtuale contemporanea dalla prospettiva di una giovane donna nera, appartenente alla working class.
Una giovane londinese, immigrata di seconda generazione, va a letto con un quarantenne narcisista, uomo facoltoso e affermato nel mondo dell’arte. Tra i due nasce una relazione tossica (secondo la fortunata espressione della psicologa Lilian Glass), che porta la protagonista a fantasticare un coinvolgimento sempre maggiore del suo amante, per restarne puntualmente delusa – eloquente è l’appellativo L’uomo con cui voglio stare con cui lo fa agire all’interno del suo memoir. Durante i loro incontri sessuali, lui le confida dettagli intimi sulle amanti che ha avuto, soffermandosi in particolare sulla relazione con una donna californiana che ancora lo tormenta. Rintracciatala su Instagram, la giovane sviluppa una morbosa ossessione per la sua rivale. Ecco il profilo mediatico che ne fornisce in apertura del romanzo:
Lei ha decine di migliaia di follower, ha la spunta blu, ed è la figlia di un tizio famoso in America. Frotte infinite di bianchi lasciano commenti adoranti sotto i suoi post, in cui esprime opinioni su oggetti casalinghi che non ho mai neanche preso in considerazione; lei ha gusti decisi sulle candele in cera d’api, stende tovaglie raffinate come anteprima delle cene, sa dove comprare stoviglie in ceramica in edizione limitata da vasai di una certa fama, sborsa tutta felice 300 dollari per un vaso che riempie di fiori di finocchio davvero, davvero biologico, perché come dice lei c’è biologico e biologico
La donna da cui sono ossessionata – questo l’epiteto con cui nel libro viene identificato il personaggio – è dunque una famosa influencer, di pelle bianca, dal tenore di vita diametralmente opposto a quello della fan. La competizione sessuale e la fascinazione per una vita distante dalla propria insinuano in lei desiderio di emulazione e mania di controllo, facendole assumere atteggiamenti da stalker al limite della moralità: consulta compulsivamente il suo profilo Instagram per tracciarne ogni spostamento; setaccia il web alla ricerca di tracce digitali del suo passato; intercetta i commenti degli haters ai suoi post prima che lei li cancelli; ne studia le espressioni ricorrenti e le pose, finendo per assumerle a sua volta; scopre l’indirizzo di casa della sorellastra, che vive a Londra, la insegue fino al parco, infine si spaccia per una vicina di quartiere per familiarizzare ed estorcerle qualche indiscrezione su di lei.
I brevi capitoli che compongono il romanzo alternano pagine narrative, in cui la protagonista rielabora i momenti salienti della relazione adulterina, a pagine introspettive, a descrizioni minuziose del privilegio in cui si crogiola l’influencer americana, eretta a simbolo delle secolari oppressioni compiute dall’uomo bianco occidentale in nome della sua superiorità di razza, classe e cultura. Ma non c’è vittimismo nelle parole della fan; il furore è l’emozione che affiora ad ogni pagina: quando critica con sarcasmo le storture della società («Qui, il beige è diviso in avorio, tortora, cipria, opaco; il beige non è beige in questa dimensione del gusto»); quando rivendica disinibita i propri desideri sessuali («voglio essere scopata e il mio ragazzo vuole fare l’amore») o le proprie ambizioni artistiche («Voglio diventare immortale grazie al mio cervello, e non per il potenziale del mio utero»).
I titoletti che contrassegnano i capitoli aggiungono vivacità all’opera facendo il verso al gergo dei meme, con una nota di autoironia in perfetto stile internettiano («Prima di tutto, non è che non ho visto i segnali di allarme, li ho visti e ho pensato, già, ma che sexy»; oppure «la viennetta è veramente il simbolo dell’opulenza»). La stessa impalcatura del romanzo, fatto di capitoli che vanno da un minimo di tre righe a un massimo di cinque pagine, che formano unità in sé concluse, svincolate da un ordine cronologico interno alla narrazione ed esterno alla realtà dei fatti, con la conseguente assenza di un evento che determini un inesorabile scioglimento, ricorda la struttura dei vecchi blog. Ciò comporta un rafforzamento del patto narrativo tra scrittrice e lettore, che sembra configurarsi come il destinatario fidelizzato di una newsletter in continuo aggiornamento. Che questa sperimentazione formale possa rilanciare il già fiorente genere dell’autofiction? Che possa meglio incontrare i gusti del pubblico dei Millennials e dei Gen Z, a proprio agio nello scorrere rapidamente le pagine, leggerle in ordine sparso, lasciandosi catturare di tanto in tanto dagli ammiccanti titoletti, come farebbe scrollando la home di Instagram, swippando profili sulle app di dating? Oppure anche questo romanzo invecchierà con la rapidità con cui gli antichi blog sono stati rimpiazzati dai social network? La casa editrice italiana sembra scommettere sulla prima quando nella quarta di copertina lo definisce «uno di quei rari romanzi che al loro apparire cambiano le regole del gioco».
Sheena Patel – con cui l’anonima narratrice sembra avere evidenti implicazioni biografiche – costruisce tre attori dalle identità politiche tipizzate e se ne serve per riflettere sulle disuguaglianze di classe della nostra epoca, che orientano persino le scelte etiche degli individui. Disuguaglianze che le piattaforme digitali hanno reso ancor più patenti, incoraggiando la condivisione di momenti un tempo confinati alla sfera privata. Così, la narratrice consuma cibo in scatola acquistato al discount, mentre l’influencer ambientalista spende 100 dollari per otto mele biologiche di ottima qualità; la prima smarrisce la sua identità dentro vestiti taglia unica confezionati dalle industrie del fast fashion, mentre la seconda sfoggia capi unici cuciti a mano in piccoli atelier; l’immigrata abita case che non possiede, faticando per ottenere un mutuo a causa della precarietà del suo lavoro, mentre l’ereditiera investe in un locale tutto suo a Marfa, che arreda con oggetti rari di design, guadagnandosi l’adulazione dei suoi follower per il comprovato buon gusto.
L’appartenenza alla razza e alla classe oppressa talvolta erompe in confessioni di invidia sociale, in una litania infantile per quello che vorrebbe ma non possiede («Voglio potere e conoscenze e soldi e status e accesso e influenza…»), talvolta invece approda ad argomentazioni sociologiche di validità universale:
Le narrazioni per noi disponibili si basano sulle nostre identità, così come le storie che sono approvate dal mercato e dai social media. Hanno in sé una familiarità ottundente. Noi immigrati di seconda generazione abbiamo il privilegio di poterci autorealizzare. Facciamo sculture, dirigiamo film, scriviamo commedie, romanzi, memoir e poesie sul fatto di non avere una casa […] Per un algoritmo che non abbiamo ideato noi, per una piattaforma che non è stata progettata affinché potessimo attirare l’attenzione di un sistema culturale che ci esclude, ci facciamo ulteriormente male inscenando la nostra Alterità
Il determinismo sociale sembra governare tanto la realtà fisica quanto quella virtuale. L’identità digitale segue percorsi obbligati, stabiliti dalle condizioni materiali di partenza, che lasciano scarso margine all’autorealizzazione. Il nuovo mito dell’imprenditore digitale si rivela illusorio e classista: l’alta disponibilità economica consente al ceto borghese di differenziarsi dalla massa, capitalizzando il suo stile di vita unico su piattaforme che premiano la singolarità, l’eccesso, l’esibizionismo. Il filosofo Sadin individua un nuovo ethos, in cui l’imperativo della valorizzazione di sé sostituisce il puro desiderio di celebrità, assecondando «una tendenza tipica delle società liberali che invitano a smarcarsi e sfruttare i propri vantaggi competitivi». All’immigrato, al dipendente salariato, a chi vive ai margini della società, è assegnato un destino di anonimato e oscurità anche sui social media. La sua sola opportunità di riscatto (personale, non collettiva) risiede nel trasformare in arte la propria condizione di vittima.
Allora la rivalità sessuale, sociale ed etnica di Patel nei confronti dell’influencer non ha più radice individuale ma strutturale. La competizione è connaturata a un sistema neoliberista, in cui persino le relazioni sentimentali sono concepite come un investimento in Borsa e la minaccia di una rottura assume i connotati di un’«imminente bancarotta». L’autrice oscilla tra sentimenti di invidia e di sdegno e il desiderio di solidarizzare con la donna, che in fondo vorrebbe abbracciare come un’amica, commiserare «come due veterane di guerra sfinite, paragonare le ferite ricevute in battaglia». Ad avvicinarle sopraggiunge la comune condizione di donne soggette agli abusi di una personalità maschile tossica. Tuttavia, in un contesto di individualismo esasperato, qualsiasi movimento collettivo fatica a tradursi in realtà; la retorica femminista imperante appare ipocrita e condizionata dalla logica performativa dei media. Donne che vantano di sostenersi in pubblico, contendono per le attenzioni dello stesso uomo nel privato della loro sfera affettiva. Desolata, la narratrice realizza: «È così arcaico e umiliante rendersi conto che niente è cambiato, nonostante tutta la retorica che ci suggerisce il contrario. Continueremo a metterci l’una contro l’altra, avremmo dovuto riunirci in un sindacato, invece ci frammentiamo».