Un riflessione sul cinema d’avanguardia degli anni ‘30.
Un uomo vestito si butta in acqua, fa una capriola trattenendo il fiato, apre gli occhi e cerca qualcosa, gioca con lo sguardo della camera, che è anche lei sott’acqua. Sembra intrappolato nell’inquadratura e, al tempo stesso, libero di sfuggirle. Una sovrimpressione ci mostra una donna in abito da sposa, lui la guarda e la rincorre, lei sorride in camera, il vento le scompiglia i capelli. Non c’è una realtà e un sogno, le due scene hanno la stessa consistenza.
Questa sequenza è tratta dall’Atalante di Jean Vigo (1934), uno dei capolavori del cinema. Un ibrido tra reale e immaginifico, scoperta e malinconia. Le sue inquadrature-acquario danno l’idea di tanti micro eventi connessi non da una storia ma dal movimento delle percezioni e dei desideri che sperimentano i protagonisti. Jean Vigo decostruisce la narrazione lineare per dare spazio a un’immagine permanente, che si serve di sovraimpressioni e ralenti ereditate dalla stagione, giunta al suo viale del tramonto, delle avanguardie cinematografiche europee, rifuggendo qualunque dinamica di cinema commerciale.
Gli anni ’20 e ‘30 in Europa sono un misto di sperimentazione e realismo. Dopo il difficoltoso passaggio dal muto al sonoro, la sala sta diventando un’industria e si sta spostando a Hollywood, mentre in Europa continuano a resistere le avanguardie. Gli storici Bordwell e Thompson le definiscono cinema sperimentale fuori dall’industria, lontane dalla narrativa e dalla spettacolarità del cinema classico; le avanguardie cinematografiche ereditano e inglobano le intuizioni del dadaismo, dell’astrattismo e, soprattutto, del surrealismo con risultati inediti: montaggio alternato e schizofrenico, la metropoli che diventa soggetto di una società lacerata dai cambiamenti, la narrazione sempre meno lineare – comprensibilmente. Si tratta di opere autofinanziate o con budget molto limitati.
Nel ’29 esce il film d’avanguardia per eccellenza, Un Chien Andalou di Luis Buñuel, prodotto e interpretato insieme a Salvador Dalì. La scena iconica nella quale vediamo il taglio dell’occhio di una donna, attraverso un rapido e magico taglio di montaggio, libera il cinema dalla sua funzione d’appendice di letteratura e teatro, diventando antinarrativa e fuori dalle pressioni commerciali. La rivoluzione dei surrealisti è una rivoluzione visiva, vuole portare lo spettatore a vedere cose mai viste e, soprattutto, a cose che non si vorrebbero vedere. Con le sue immagini oniriche e con le sue narrazioni anarchiche, Jean Vigo s’inserisce in questo contesto nuovo, assorbe la tecnica e la narrazione sperimentale e antiborghese dalle avanguardie, e aggiunge uno sguardo personale, intimo. Integrando le tematiche più strettamente sociali con un gusto estetico preciso, i film di Vigo contengono caratteristiche antitetiche che risultano improvvisamente armoniose.
La sua prima opera è un breve documentario sulla città di Nizza. Influenzato dal cinema-verità sovietico di Vertov -macchina da presa come occhio che indaga la città-, Vigo crea una sorta di dimensione insolita del racconto che può essere definito come documentario autoriale. A proposito di Nizza scruta i corpi che vivono in una città eclettica e in movimento, non c’è sceneggiatura né struttura, la folla ci fa perdere nella frammentazione dell’uomo di primo ‘900.
Le gambe di donne che ballano sovrapposte alla povertà nelle strade sono solo una parte del vero soggetto che rimane la città stessa, la quale si muove schizofrenica ed estetizzata a tal punto da sembrare un soggetto indipendente che fa piegare la camera stessa alla sua volontà. La città-mostro diventa il simbolo del progresso che avanza: vediamo immagini di ciminiere che inquinano il cielo aperto, piccoli ingranaggi autoconclusivi che non si servono di didascalie per raccontare la città perché, effettivamente, non c’è nulla da raccontare, non c’è storia.
Jean Vigo chiede di percepire la città nelle sue contraddizioni: da una cultura solida si passa a un’immagine liquida, come scriverebbe Deleuze. Lo spettatore non deve seguire una serie di relazioni causa-effetto, ma è catapultato in brevi sequenze, nelle quali può esperire la dinamicità e il caos della vita moderna. Rientrando nel filone delle “sinfonie urbane” di fine anni ’20, Vigo crea un racconto percettivo eterogeneo e originale.
Questa sua capacità di soffermarsi sul corpo vivo e la scelta anti-narrativa, è confermata nel suo secondo lavoro, Taris, roi de l’eau dell’anno successivo. Il brevissimo documentario, commissionatogli dal Gaumont-Franco-Film-Aubert, è un ritratto atipico del nuotatore Jean Taris. Questo cortometraggio indaga il corpo dell’attore attraverso dettagli e primi piani, come in A proposito di Nizza, non troviamo nessuna didascalia o racconto della vita del nuotatore. Ralenti e dissolvenze, sapientemente dosati, esaltano il corpo del nuotatore in acqua, ma soprattutto anticipano l’iconica sequenza subacquea dell’Atalante.
Jean Vigo, prima di cimentarsi in un lungometraggio, passa attraverso un mediometraggio, un film autobiografico che racconta la ribellione di quattro ragazzi contro le autorità del collegio maschile. Il regista, figlio di un anarchico, morto in prigione in condizioni non chiare, gioca con la rappresentazione delle autorità, grottesche e ridicole, e si cala nel mondo infantile attraverso il punto di vista dei ragazzi stessi. In Zero in condotta, come nelle opere precedenti, non sceglie una narrazione lineare, ma piccoli episodi scollegati tra di loro, come se fossero brevi reminiscenze della sua esperienza personale.
L’indagine del rapporto di potere che s’instaura tra oppresso e oppressore è raccontato sempre attraverso il corpo vivo che si muove nello spazio. Il direttore del collegio è un nano che fa discorsi confusi, mentre i ragazzi sono forze rivoluzionarie che vivono d’istinti la scoperta della crescita. Come scrive Giacomo Ravesi: “in Zero in condotta la critica sociale passa attraverso la ridicolizzazione dei corpi delle autorità”. Vigo si muove a metà tra cinema sociale e realismo poetico, alterna inquadrature soggettive ad altre oggettive, creando un punto d’intesa tra le avanguardie storiche e il cinema più tradizionale. L’attenzione del regista è posta sull’unità e non sulla frammentazione, i ragazzi vengono rappresentati come entità unica, la collettività della “banda” che si oppone alla singolarità dell’autorità.
L’ultima sequenza ci mostra i ragazzi correre sul tetto del collegio: si allontana dal finale pessimistico di A proposito di Nizza e si sofferma sulla possibilità di un’apertura politica, forse in un clima di fermento dovuto alla nascita del Fronte Popolare e a una neo cinematografia più strettamente sociale. L’idea di collettività e produzione dal basso sarà il modus operandi della “Banda di Vigo”, la troupe cinematografica che collaborerà a ogni film dell’autore. Sarà fondamentale l’occhio di Boris Kaufman, direttore della fotografia e fratello di Dziga Vertov. Il cinema di Vigo è un cinema di luoghi, tutte le riprese sono dal vero, lo studio cinematografico è limitato il più possibile. Sempre più evidente, soprattutto, nella presa diretta dell’audio dell’Atalante, che in alcuni casi sarà confuso e leggermente fuori sincrono.
L’Atalante è il primo e unico lungometraggio di finzione girato da Jean Vigo: una storia d’amore tra Juliette (Dita Parlo) e Jean (Jean Dasté), il loro matrimonio e l’inizio della vita coniugale all’interno della barca di Jean, l’Atalante. La vita a bordo della chiatta ha ritmi lontanissimi da quelli della terraferma, la mondanità e la vita moderna sono un ricordo sfuocato, l’Atalante segue l’andamento del suo marinaio, Pere Jules, e il suo giovane mozzo. Se all’inizio è difficile adattarsi a questa nuova vita, ben presto Juliette si affeziona a Pere Jules, una sorta di personaggio mitologico, un avventuriero pieno di tatuaggi e di oggetti riportati dai suoi stessi viaggi, emblema della vita in movimento. Juliette, eternamente attratta dall’altro, dallo sconosciuto e dallo straordinario, cerca sempre qualcosa di nuovo. Resta affascinata da un venditore ambulante sulla terra ferma, un personaggio che le propone un’alternativa diversa, nuova, magica alla barca dove sta vivendo. Juliette è attratta da Parigi, dal mondo caotico, mentre Jean è un personaggio razionale e statico; nonostante la loro unione sia molto forte, Juliette scappa, per poi ritornare.
Come scrive Truffaut, L’Atalante è “l’esordio nella vita di una giovane coppia”, racconta una storia di scoperta, di crescita e, soprattutto, di possibilità. Ancora una volta Vigo decide di farlo non attraverso un racconto che vive di una narrazione lineare, preferendo un percorso circolare: il film si apre e si chiude con l’amore tra i due protagonisti, nel finale con una consapevolezza di rapporto consolidato. Ciò che è interessante è che la scoperta dell’altro è sempre esperita attraverso i corpi, più vivi che mai, costretti in un luogo piccolo e soffocante come quello della barca, dove si avvicinano, si sfiorano, si toccano. Il corpo è al centro anche della scena più famosa del film, i due amanti sott’acqua che si toccano solo attraverso dissolvenze e ralenti, sospesi in un dimensione altra, seguendo la leggenda che dice che “in acqua si vede la persona amata”.
Secondo Deleuze proprio nel motivo dell’acqua troviamo la promessa di un’evoluzione linguistica, della possibilità di accesso a un nuovo stato di percezione, quindi la costruzione di una nuova esperienza filmica. Come scrive ancora Ravesi, è un film che fa dell’iconofilia la sua ossessione artistica, nel quale le inquadrature sono contemporaneamente un limite costrittivo e una soglia trasparente. I protagonisti sembrano sporgersi verso altro, fuori dall’inquadratura e fuori dallo spazio, per accedere a un nuovo luogo, che potremmo definire liminale. La soggettivizzazione dell’immagine e la sua autorialità, racchiuse nel tema dell’acqua in Vigo, diventano la conditio sine qua non per la nascita della Nouvelle Vague alla fine degli anni ‘50.
L’indimenticabile scena finale di 400 Colpi di Truffaut, nella quale Antoine, il ragazzino protagonista guarda dritto in camera con dietro l’abbattersi delle onde del mare, non solo apre un nuovo capitolo nella vita di Antoine, ovvero l’entrata nel mondo degli adulti, ma apre anche un nuovo capitolo per la storia del cinema, quella della “politica degli autori”, uno sguardo personale contemporaneo e dal basso sul mondo in evoluzione. In questo senso è importante ricordare come tutta l’opera di Vigo viene riscoperta proprio nell’epoca dei Cahiers du Cinema. Dopo un periodo di totale oblio, la sua figura viene mitizzata per le tematiche anti borghesi e radicali, ma soprattutto per la sua capacità di avere uno sguardo preciso e riconoscibile fin dal primo cortometraggio.
L’eredità di Jean Vigo è tutt’intorno a noi, nel salvagente di Ultimo tango a Parigi, nella scena della chiesa di Travelling avant, nelle scelte stilistiche di Leo Carax in Gli amanti del Pont-Neuf.
L’iconica sequenza subacquea dei due amanti dell’Atalante con in sottofondo Because the night di Patti Smith è stata, dal 1988 al 2017, la sigla di Fuori orario cose (mai) viste, il programma cult di Enrico Ghezzi. Anche senza saper il nome del regista e i titoli dei suoi film, le sue immagini vivono in noi e si tramandano trasmutate o citate in opere contemporanee, creando un movimento sempre nuovo tra cinema del passato e cinema del presente.
In questo senso è curioso notare come alcuni dei film più strettamente autoriali italiani degli ultimi due anni siano fortemente collegati alla tematica dell’acqua, pensiamo a Piccolo corpo di Samani o a Re granchio di Zoppis e Rigo De Righi, entrambi presentati al Festival di Cannes 2021. Questi due film, inoltre, sono girati, in gran parte, in esterno e sono strettamente legati al luogo in cui la narrazione si muove. Non potrebbe esistere Piccolo Corpo senza le montagne del Friuli, come non potrebbe esistere Re granchio senza prima la Tuscia e poi la Terra dei fuochi. Come non poteva esistere il cinema di Jean Vigo senza Nizza o Parigi.
A quasi novant’anni dalla morte di Jean Vigo, la sua poetica e la sua sensibilità persistono e influenzano ancora le opere di autori più o meno esordienti, facendo auspicare una nuova corrente di realismo poetico avanguardistico, ancora difficile da definire, ma sicuramente già presente.