Nella mente di Richard Yates

di Francesca Romana Cicolella


Michael Davenport ha avuto un esaurimento nervoso, ha passato del tempo nell’istituto psichiatrico Bellevue, ha camminato in una stanza imbottita di bianco e ha perso la cognizione del tempo e di sè stesso. Dopo ha ricominciato a vivere, racconta di quel momento come il peggiore della sua vita, dividendo la sua esistenza in pre e post Bellevue. Prima di finire in quell’istituto aveva criticato gli appuntamenti di sua moglie con uno psicoterapeuta, dopo molti anni sarà costretto ad accompagnare la figlia in terapia. Alla fine Michael si rivolgerà ad uno psicoterapeuta per sè, ne sentirà il bisogno.

Michael è il protagonista di Il vento selvaggio che passa (Young hearts crying) romanzo di Richard Yates del 1984, pubblicato in Italia solo nel 2020 da Minimum Fax. Il primo momento in cui, in questo romanzo, si affronta il tema della psicoterapia è durante una semplice chiacchierata tra amici. Michael e sua moglie Lucy, a cena con un’altra coppia, ascoltano la confessione di Bill, che con fierezza racconta di aver iniziato un percorso di cura.

La decisione non era stata facile, spiegò: con tutta probabilità aveva richiesto più coraggio di qualunque altra cosa avesse fatto, e il peggio è che ci potevano volere anni – anni! – prima che l’aiuto che stava ricevendo adesso cominciasse ad avere qualche effetto proficuo sulla sua vita. Nondimeno, era arrivato a un punto in cui non c’erano altre scelte possibili. In tutta onestà, aveva l’impressione che se non avesse fatto questo passo sarebbe potuto uscire di senno.

L’unica ad interessarsi davvero al racconto accorato di Bill è Lucy che, tirando in ballo tutti gli stereotipi delle sedute psicanalitiche, cerca di capire come funzioni davvero. Michael non ascolta Bill, nota e si infastidisce da subito pensando che quella di sua moglie sia più che mera curiosità.

“No; niente divano; questo terapista non crede nel divano…e nemmeno nella tecnica delle associazioni libere vere e proprie, almeno non in senso freudiano. Stiamo seduti uno di fronte all’altro nel suo studio e parliamo. In maniera molto concreta, perlopiù. […]Bè, senti, è quasi impossibile spiegare una cosa simile a chi non ci è dentro; non la si può…insomma, non la si può riassumere in due parole”.

Yates fa emergere, attraverso le parole di Bill, quanto sia difficile spiegare questo argomento, la cui complessità, sarà centrale nel romanzo. Il vento selvaggio che passa non è un romanzo focalizzato unicamente sulla psicoterapia o sulla malattia mentale, ma gli stravolgimenti della mente e la necessità di farvi fronte sono costantemente presenti. Se ne discute molto, si dà la possibilità al lettore di pensare al fascino della psicoterapia e, al contempo, alla sua presunta inutilità; fino a percepire come dannosa quella che dovrebbe essere una soluzione ad un momento complesso di vita.

Dopo il racconto di Bill, anche Lucy deciderà di affidarsi ad un analista, e proprio su di lui, Michael farà ricadere la colpa di un momento di crisi di coppia. Dal canto suo, Lucy finirà per avere un rapporto costante ma conflittuale con la psicoterapia e con il dottor Fine. Vi si rifugia, ma le sembra che non le dia mai le soluzioni di cui ha bisogno, quindi vi si scaglia contro.

“Questa paura della schiavitù”, disse il dottor Fine, “non è affatto insolita. Capita spesso che un paziente senta di dipendere dal suo analista, e l’impressione di dipendenza può quindi sembrare costrittiva. Ma è un’illusione, signora Davenport. Lei non è “incatenata” a me, o al lavoro che abbiamo fatto qui, proprio in nessun senso”.

“Ecco, lei ha una risposta per tutto, vero?” ribattè Lucy “Voialtri siete proprio furbi nel mandare avanti il vostro giro, vero?”

E il dottor Fine la guardò come se lei stesse scherzando. “Prego?”, fece.

Uno sproloquio sulle modalità di adescamento degli psicoterapeuti condita da espressioni come “mettere a nudo”, sulle quali Lucy rifletteva e per le quali si sentiva in trappola. Tornano tutte le motivazioni che l’avevano spinta a scappare già due volte, ma poi prevalgono ancora quelle che la fanno restare.

Fu l’imbarazzo, più di ogni altra cosa, a trattenerla sulla sua sedia. […] Spesso era stata colpita dal pensiero che ci fosse qualcosa di simile a un verme in quest’ometto calvo, slavato e placido, e adesso quell’impressione faceva sembrare il suo scatto ancora più indecoroso. Come si poteva essere schiavi di un verme? […]

Il vento selvaggio che passa è il penultimo romanzo di Yates e sembra essere una raccolta di tutti i possibili approcci del paziente alla psicoterapia e viceversa. Se ne parla, come accade anche oggi, come un tabù da sdoganare, come un mondo da esplorare e come una cialtroneria da combattere. Appare prima in maniera marginale, come un elemento in più, che poco aggiunge o toglie allo scorrere della vita e, poi, come fattore che cambia tutto. Si passa da una seduta di scambio di sensazioni al ricovero in un istituto psichiatrico, che si rivela essere molto peggio di quanto si possa immaginare.

Per Michael Davenport, ripensandoci, l’epoca successiva al suo divorzio si sarebbe sempre suddivisa in due periodi storici: prima del Bellevue e dopo il Bellevue.

Michael Davenport è il personaggio che, dall’inizio e più di tutti, prova repulsione nei confronti di psicoterapeuti e di scienza della mente. Finirà per essere quello che, molto più degli altri, vedrà la sua vita legata indissolubilmente alla psicoterapia.

Ma l’idea centrale, capisci, è l’inseparabilità di paura e follia. Avere paura ti fa diventare pazzo; diventare pazzo ti mette paura.

Dice Michael a un certo punto, sentendo la necessità di dare forma e senso a quel che ha vissuto e a quei momenti in cui corpo e mente sembrano impossibili da controllare. Paura, scatti d’ira, liti furiose, alcool a fiumi e sensazioni inquietanti e indescrivibili. C’è tutto Yates e tantissima vita ne Il vento selvaggio che passa, ci sono tutti i turbamenti dell’animo umano e della mente che hanno reso la sua scrittura riconoscibile e nota.

I lettori di Yates sono abituati ad una capacità sconvolgente di raccontare il reale, consapevoli che dietro una famiglia e una coppia apparentemente felice e perfetta si nascondano conflitti che prima o poi verranno a galla. Tutte le menti sono labili, tutti possiamo reagire alla vita nella maniera più inaspettata; tutti, inevitabilmente, prima o poi dobbiamo fare i conti con quel che vogliamo e abbiamo dentro. Yates lo sa ed è quello che sempre racconta, nei rapporti interpersonali, nei fatti della vita. Non c’è mai finzione nei suoi scritti, mai nulla che possa apparire posticcio o troppo romanzato. Ed è per questo che quando leggiamo di follia e di psicoterapia siamo certi di trovarci di fronte ad un racconto vero, alla realtà di quel che accade dentro e fuori, in questo romanzo più che mai.

Ma capiva che stava perdendo la partita: aveva sempre perso la partita con questi bastardi sfuggenti, e probabilmente sarebbe sempre andata così.

La partita di Michael Davenport con la psicoterapia in Il vento selvaggio che passa è la stessa che Richard Yates ha giocato nella realtà. Una viaggio veloce nella biografia dell’autore e tutto diventa molto chiaro. Nato nel 1923 e morto nel 1992, Yates ha sempre vissuto in America e qui, nel 1962, viene portato all’istituto psichiatrico Bellevue. Proprio quel Bellevue che divide la vita di Michael Davenport in due parti, a seguito dello stesso esaurimento psicologico che portò, come fa Lucy con Michael, la moglie di Yates ad agire per farlo ricoverare.

Sigmund fucking Freud è una delle frasi più famose di Richard Yates e tanto basta, dopo aver letto i suoi libri, a capire l’opinione dello scrittore nei confronti di una scienza che si evolveva frettolosamente proprio nei tempi in cui lui ne sperimentava gli effetti sulla pelle. Gli anni cinquanta e sessanta del ‘900 sono proprio il fulcro del dibattito sulla psicoterapia, sugli approcci al paziente e sulla forte dicotomia tra fiducia cieca e derisione della psicologia come cura. Come ha fatto notare anche Rory McGinley nell’articolo “Richard Yates and Mental Illness in Postwar America”, la narrativa di Yates rispecchia esattamente i mutevoli approcci diagnostici alla salute mentale nell’America del dopoguerra.

Il disprezzo di Yates per la psicoterapia è quindi noto, quel che attira è allora la sua ossessione per questa materia, la sua voglia di parlarne in maniera sempre diversa e di mostrarne ogni sfaccettatura. C’è solo la voglia di smontare una scienza tanto osannata alla base di tutto?

Michael Davenport è solo l’ultimo dei personaggi che Yates utilizza per parlare di psicoterapia o, per meglio dire, di sè e della psicoterapia. Prima di arrivare a scrivere Disturbo della quiete pubblica, prima ancora di finire a Bellevue, Yates inserisce la psicoterapia in Revolutionary Road. Non in maniera forte ed esplicita: questa viene introdotta grazie al personaggio di John Givings. Figlio dei proprietari della casa in cui vivono Frank e April, John è un giovane professionista i cui scatti d’ira e di violenza in casa hanno condotto in un istituto psichiatrico. Prima di incontrarlo April chiede a suo marito: Chi sa come sarà? Non credo di aver mai incontrato una persona pazza prima d’ora, e tu?. John si rivelerà una figura inquietante ma portatrice di quelle verità scomode che, durante una cena, urlerà senza filtri, disturbando il già labile equilibrio della coppia protagonista. April, più avanti,  rifiuterà la proposta di Frank di andare da uno strizzacervelli per risolvere quel momento complesso. Non si saprà mai se un intervento medico avrebbe dato un finale diverso al romanzo. In Revolutionary Road la psicoterapia sembra esserci poco, ma si fa sentire lo stesso. Frank tira in ballo tutti i tipi di teorie freudiane – come la presunta negazione della femminilità che spiegherebbe la voglia di April di abortire – trattandole con sarcasmo ma ponendole comunque alla base di congetture sullo stato mentale della moglie. Revolutionary Road è quindi già una fotografia di quel che accadeva in America e nella mente di Yates: per quanto trattata con sufficienza e ironia, la psicoterapia c’era ed era inevitabilmente centrale in ogni dibattito. Frank finirà, alla fine di questo libro, per essere una di quelle persone che vogliono sempre raccontarti del loro maledetto analista.

Disturbo della quiete pubblica esce nel 1975. Altro ritratto del rapporto America e psicoterapia, ma la vera follia sarebbe leggerlo senza considerare che da quella prima, lucida e distaccata analisi di Revolutionary Road, è accaduto quel che rende questo libro tutt’altra cosa. Yates era stato a Bellevue. Ora ci racconta un reparto di psichiatria dall’interno, ci racconta quel che accade ad un uomo che non è più in grado di tenere sotto controllo la sua mente, quel che l’America decide sia meglio per lui e quel che lui decide di fare DI sè stesso. Gli anni ‘60 sono passati, alla psicoterapia non si guarda più con curiosità, le teorie freudiane e l’approccio al paziente vengono declassati; la psicoterapia diventa squallida necessità medio-borghese.

Come fa a vendere qualcosa che non capisce?

Non è quello che fanno gli psichiatri?

Dice Wilder, il protagonista, in uno dei suoi primi scambi all’interno di Bellevue. Nessun aspetto dell’approccio psicoterapeutico appare in maniera positiva in questo libro, nessuno psicoterapeuta è una figura positiva.

Un branco di viscidi bastardi, eh? Fanno accapponare la pelle. E se si pensa al potere che quei cazzoni dagli occhi di pesce morto hanno sulla vita di un uomo…Altro che FBI, altro che CIA, altro che polizia segreta nazista…

Il dottor Blomberg, che Wilder comincia a frequentare una volta uscito da Bellevue, lo ascolta per ore in silenzio:

Il dottor Blomberg aveva più o meno la sua età, era paffuto e quasi calvo; portava degli occhiali con lenti rosa che ingrandivano gli occhi, e il suo ufficio era molto ben arredato: bei dipinti, belle sculture astratte su alti piedistalli collocati sulla moquette. C’era un lettino psichiatrico, sul quale Wilder si rifiutò di stendersi, e c’erano due ampie poltrone di pelle sulle quali erano seduti uno di fronte all’altro, da uomo a uomo. Fino a quel momento non sapeva altro del dottor Blomberg, oltre al fatto che non prendeva appunti e aveva l’abitudine di dire “mm”.

In Disturbo della quiete pubblica la psicoterapia, molto più della malattia mentale in sè, è la vera protagonista della storia. Quel che fa Yates per l’intero libro è prendersi gioco di lei.

Gli psicoterapeuti, come ne Il vento selvaggio che passa, sono sempre descritti perfettamente. I loro studi, il loro abbigliamento e il loro modo di porsi è probabilmente l’unica cosa che Yates descrive a fondo e con dovizia di particolari; il risultato è quello, nella maggior parte dei casi, di macchiette impossibili da prendere sul serio.

Tipicamente borghesi, sempre incastonati in quella parte di società lontana dai problemi che i protagonisti stanno affrontando, fintamente empatici con loro e proiettati ai banali problemi della loro vita perfetta, mentre annuiscono guardando l’orologio. Nessun personaggio di Yates, seppur torni sempre da uno psicanalista, trascinato o di sua spontanea volontà, troverà in un medico un vero alleato. Il Wilder di Disturbo della quiete pubblica ci prova, ma trova la strada in tutt’altro tipo di terapia.

“Sa una cosa? Sei il primo truffatore patentato che ho mai visto lavorare stando zitto come una tomba. Ti racconto tutta la maledetta storia della mia vita e tu stai seduto lì, senza dire assolutamente niente, e ogni settimana ti metti in tasca cento verdoni che sono i miei. Sai come si chiama questo? Si chiama furto

Si alzarono tutti e due . “Ho un altro paziente che aspetta, signor Wilder.”

“Fallo aspettare. Io sto aspettando già da un bel po’. Una domanda: quando diavolo cominci a parlare, tu? Quando pensi di iniziare questo famoso “lavoro”, l’”aiuto”, la “terapia”? Eh?”

“Signor Wilder, non capisco la causa di questa ostilità, ma forse ne potremo discutere giovedì.”

I farmaci, unica cosa in cui Yates crede dopo il suo ritorno alla vita post Bellevue, diventano l’unica cura possibile. Niente più confidenze e chiacchierate con i medici, quelli migliori diventeranno quelli capaci di scrivere ricette e di indicare precisamente le dosi di ogni scatoletta. Non ha importanza quale farmaco faccia cosa, vanno presi e tutto andrà meglio. “Benissimo signor Wilder”, dice in Disturbo della quiete pubblica il dottor Brink, “Penso che sarà possibile lavorare insieme. Solo mi permetta prima di farle alcune domande di routine; poi le prescriverò alcune medicine e la manderò per la sua strada. Le sta bene?”

Wilder adorerà questo medico che non si aspetta che lui parli tutto il tempo, che non gli fa alcuna paternale sull’abuso d’alcool e gli toglie e mette medicine senza reali spiegazioni. Era la nuova frontiera della psichiatria, in America e nel mondo che Yates stava sperimentando mentre raccontava la storia di Wilder.

L’impressione è che Disturbo della quiete pubblica sia il momento in cui Richard Yates decide di descrivere davvero la psichiatria in America negli anni ‘60 e ‘70, lo fa a fondo e con crudezza, ma forse senza reale lucidità. E’ estrema la storia di Wilder, è estrema la freddezza di ogni approccio psicoterapeutico, è troppo calda e forse ancora poco lucida la reazione di Yates alle sue stesse storie – di cui John Wilder è incarnazione perfetta – anche quando empatizza con l’assassino di Kennedy, quel presidente che nella storia dell’approccio psicoterapeutico aveva lasciato il segno.

Provava simpatia per l’assassino e sentiva di capire il suo movente. Kennedy era troppo giovane, troppo ricco, troppo bello e troppo fortunato; era l’incarnazione dell’eleganza, dell’intelligenza e della finezza. Il suo assassino aveva parlato in nome della debolezza, delle tenebre nevrotiche, della battaglia senza speranza e delle passioni autodistruttive dell’ignoranza, e John Wilder comprendeva tutte queste forze anche troppo bene.

Wilder è quella parte di Yates che continua a bere con le medicine in corpo, che ha la smania di raccontare quello che la mente gli fa e quello che i medici della mente gli fanno con estrema rabbia. Wilder è quella parte di Yates che non crede di poter mai più uscire da uno stato di follia oramai conclamato. Se Disturbo della quiete pubblica è passaggio obbligato per comprendere il binomio Richard Yates e psicoterapia, continuo a pensare che la vera risposta al bisogno di Yates di parlarci di psicoterapia siano nelle parole di vent’anni dopo, in quel Young Hearts Crying che non hanno fatto leggere in Italia fino ad ora.

Yates ha smontato la psicoterapia per tutto il suo tempo, vi ha sputato sopra come pochi, ma ho l’impressione che non sia stata solo la smania distruttiva ad averlo spinto a scriverne così tanto. Dopo averla distrutta, Yates accorda nuove possibilità alla psicoterapia. Le dà spazio, anche se pensa che non serva a nulla. Concede un’altra opportunità a quella scienza e a sè stesso, alla sua rinnovata capacità di sfruttarla per scavarsi dentro.

E prima di cominciare la voglio avvisare che non ho mai avuto fiducia nella sua professione. Secondo me Sigmund Freud era uno sciocco e un pedante, e quella che voialtri chiamate “terapia” di solito è un racket pernicioso. Sono qui solo perchè ho bisogno di parlare con qualcuno, e dev’essere qualcuno della cui discrezione possa essere sicuro.”

“Bene, allora”. Il viso del dottore esprimeva calma, esperienza e disponibilità all’ascolto. “Qual è il problema?”

Che serva o no farlo con la psicoterapia, i personaggi di Yates imparano a parlare della loro vita e dei loro sentimenti, a cercare il loro posto nel mondo e il loro, seppur labile e precario, equilibrio. Michael Davenport, il cui vissuto rispecchia in molti aspetti quello di Yates, è per me l’emblema del pensiero finalmente maturo di questo autore sulla psicoterapia. Ha la capacità di esporci tutto ciò che c’è da sapere, di rendere interpretabile una scienza esattamente come quel che accade nei rapporti umani. Finiti i suoi libri, Il vento selvaggio che passa in particolare, abbiamo anche noi parecchi dubbi sul confine tra follia e normalità. Michael dice che la cosa buffa è che può anche darsi che non fossi affatto pazzo, e così Yates riesce nell’intento di smontare non solo il concetto di psicoterapia ma anche, forse soprattutto, quello di follia.

Richard Yates brinda con Michael Davenport quando, a tavola con Lucy, gli fa dire: “Perciò senti” – e strizzò un occhio per segnalare di prenderla come una battuta, se voleva. “Senti: affanculo la psichiatria, d’accordo?”

Tutta questa psichiatria di cui Yates non sente il bisogno e che, anzi, sente la necessità di mandare a fanculo, è stata forse tappa fondamentale per seguire l’obiettivo, che già fa pronunciare a Wilder, del trovare l’ordine nel caos. Yates inizia a farlo con John Givings, fa pensare questa frase a Wilder e continua a prenderne coscienza fino a quando Michael brinda a ciò che ha vissuto e a ciò in cui ora crede, potendo andare per la sua strada. Prima ancora dello studio di Jeffrey Berman sulla tendenza degli autori a sfruttare la letteratura per parlare delle proprie sofferenze, era già evidente che se Richard Yates non avesse scritto tutto il suo disprezzo, non avrebbe mai ordinato quel caos. Per Michael Davenport, come per Richard Yates, la scrittura è il modo per tenere a bada quel disastro, per far sì che la psicosi non prenda il sopravvento.

Se scrivevi soltanto di te, perfetti sconosciuti potevano arrivare a conoscerti fin troppo bene.

Yates con la scrittura ha fatto conoscere sè stesso per intero, ha potuto buttare nero su bianco tutta quella psicoterapia che era diventata ossessivamente protagonista della sua vita, dandole finalmente un senso. Ne ha sfruttato ogni dettaglio, lo ha analizzato a fondo: alla fine tutta quella psicoterapia raggiunge il suo obiettivo, solo però quando tutto è diventato parola scritta.

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