In copertina: foto di Irene Tempestini, scattata a Palermo
È una mattina d’agosto. Pierre Anthon sostiene che niente ha senso, decide di mettere da parte la vita ordinaria per accasarsi su un albero e, da lì, lancia le sue invettive (e le susine) contro il mondo:
Anche se imparate qualcosa e pensate di saperla fare bene, ci sarà sempre qualcuno che la farà meglio di voi!
Si va a scuola per trovare un lavoro, e si lavora per potersi riposare. Perché non riposarsi fin dall’inizio, allora?
O ancora:
Prima ci s’innamora, poi ci si fidanza, poi l’innamoramento passa e ci si lascia.
Pierre Anthon è un nichilista. Ha 13 anni.
Sono passati vent’anni da quando Janne Teller, scrittrice danese con una formazione economica e con un passato all’interno di Unione Europea e ONU, ha pubblicato Niente, romanzo breve portato in Italia da Feltrinelli solamente 12 anni dopo la sua stesura a causa di censure e sabotaggi in più parti del mondo (al perché ci arriviamo a breve).
La trama della narrazione prende le mosse da un’esigenza: i compagni di classe di Pierre Anthon, scossi dal suo comportamento evasivo, vogliono cercare di fargli cambiare idea in modo totalmente logico, rispondendo alla sua fuga dal mondo normale con una condotta consequenziale alle sue azioni: «Dobbiamo provare a Pierre Anthon che c’è qualcosa che ha un senso».
L’idea del gruppo di adolescenti è semplice: creare una “catasta del significato” mettendo insieme oggetti a loro cari per mostrarla a Pierre Anthon e dimostrargli che si sbaglia. Da questo spunto comincia il loro iter: inizialmente trovano come base logistica una vecchia segheria e la muniscono di lucchetto, dopodiché iniziano ad ammucchiare le “cose” più disparate sempre tenendo a mente il loro proposito. L’inizio è soft, con manuali di Dungeons & Dragons, orecchini, sandali e oggetti sì con un certo valore affettivo, ma comunque di poco conto. Dopo questo primo approccio al metodo, però, i ragazzini acquistano un’importante consapevolezza: quello non è il vero significato. Il reale senso lo troveranno obbligandosi vicendevolmente a sacrificare qualcosa su ordine di un proprio coetaneo, stabilendo così un gioco di cattiveria. Sarà l’inizio di un climax vertiginoso, in cui sullo pseudo altare pagano non si ammasseranno più soltanto “oggetti” ma anche qualcosa di più: Oscarino, il criceto della piccola Gerda; il Dannebrog di Frederik, ossia la bandiera della sua amata Danimarca; le trecce dei capelli «Blu. Più blu. I più blu di tutti» di Rikke-Ursula; Emil – o meglio – la bara del piccolo Emil, fratellino minore di Elise morto prematuramente; la testa decapitata di Cenerentola, la cagna che continuava a pisciare sul Gesù crocifisso (prelevato dalla chiesa del paese) tanto caro a Kaj; un fazzoletto sporco di muco e sangue simbolo dell’innocenza di Sofie.
Violenza, brutalità e vendetta. Questi motivi – oltre ad aver creato i problemi di censura di cui sopra – ci consentono però di interrogarci sui comportamenti che contraddistinguono i ragazzini della Teller e di porci una domanda chiave: le condotte di questi adolescenti sono dettate dal coraggio o dall’incoscienza?
Questo gancio narrativo risveglia ricordi da adolescente: chi non è mai entrato in una casa abbandonata – che magari si diceva fosse covo di drogati – coadiuvato da amici loschi, armato di mazze da baseball, catene, o trincaglierie del genere? Scommetto che questa situazione ipotetica non è poi tanto ipotetica.
Ebbene, questo scenario può essere accomunato con Niente dallo stesso quesito: stiamo parlando di un atteggiamento coraggioso oppure incosciente? E aggiungo: cosa spinge un adolescente ad intraprendere determinati comportamenti? Come dobbiamo giudicare?
Consapevolezza (e domande)
Il discrimine è la consapevolezza: siamo consapevoli? Allora è coraggio. Non siamo consapevoli? Allora è incoscienza. (È possibile essere consapevoli di essere incoscienti?)
Proviamo a giudicare gli atti. Entrare in una casa abbandonata è imprudente. Se qualcuno ti vedesse violare la recinzione? Se, una volta dentro la casa, il pavimento cedesse?
E se, come se fossimo in una storia inventata, gli adulti non fossero ammessi a fornire questi giudizi? Se gli adulti non sapessero dell’accaduto il loro parere sarebbe ininfluente ed ecco che l’unica valutazione ad essere rilevante diverrebbe quella degli altri adolescenti. Tu, agli occhi dei tuoi amici fifoni che dentro la casa non sono voluti entrare, diventi automaticamente un eroe, un esempio limpidissimo di coraggio e machismo. Esci dalla casa, sorriso tronfio da conquistadores, applausi. I tuoi genitori non sapranno mai niente di questa faccenda e tu rimarrai nelle memorie dei tuoi compagni di avventura come uno di coloro che è stato coraggioso, che è andato oltre la paura. (Esiste l’incoscienza agli occhi di un ragazzino? O meglio: tu hai davvero provato paura e l’hai superata, o non ti sei nemmeno posto il problema? Hai considerato gli esiti delle tue azioni tanto da trovare qualcosa per cui preoccuparti?)
Torniamo a Niente e riflettiamo sulla scelta di costringere i propri amici, coetanei, compagni di classe, a sacrifici (materiali e non) per perorare una causa.
Janne Teller, nel suo romanzo, ci mette in una situazione come quella immaginata più su nella circostanza della casa abbandonata. Il mondo che racconta Teller è un posto in cui gli adulti sono marginalizzati, si percepiscono sullo sfondo ma le loro parole e i loro gesti non lasciano segni evidenti e tangibili; il solo personaggio adulto ad essere più incisivo è Eskildsen, maestro e tutor della classe 7A di Tæring che, però, al pari degli altri ‘grandi’, viene estromesso dal microcosmo creato dal gruppo di giovani studenti:
Non possiamo reclamare né con Eskildsen né con il preside né con nessun adulto, perché se ci lamentiamo di Pierre Anthon sul susino, dovremo anche spiegare perché ci lamentiamo. Saremo costretti a raccontare quello che dice Pierre Anthon. E questo è impossibile, perché gli adulti non vorranno sentire che sappiamo che niente ha davvero senso e tutti fanno solo finta.
(Se c’è consapevolezza in quest’ultima affermazione, allora ha senso creare la catasta di significato?)
Niente si configura come un mondo di adolescenti senza adulti. Questo cambia le dinamiche, altera il naturale rapporto causa/effetto delle cose, modifica i giudizi. Anzi, li sopprime. Gli atteggiamenti dei ragazzini ondeggiano tra la consapevolezza di adoperarsi per uno scopo comune (mettere insieme il significato per far scendere Pierre Anthon dal susino) e la totale, lucidissima libertà (o incoscienza?) nel mutilare fisicamente o idealmente i propri compagni, senza rimorsi, per puro spirito di vendetta. Tutto è concesso e non c’è limite al sacrificio. Varcare il confine è cogliere il vero significato e senza lo sguardo adulto che sorveglia e che giudica, le conseguenze vengono azzerate. A tal proposito, vediamo che fine fa Pierre Anthon. Fast forward di trama.
La “catasta del significato” si compie nel momento in cui Sofie, la ragazzina a cui è stato imposto il sacrificio della propria verginità, recide l’indice di Jan-Johan (che suonava i Beatles in modo sopraffino). Il giovane, ex-leader della gang, spiffera ai genitori l’esistenza del ‘mucchio di cose’ dentro la segheria e, come conseguenza, la polizia recinta il luogo per metterlo sotto custodia. Nonostante questi avvenimenti, gli adolescenti riescono a far sì che “Il Martedì di Tæring”, quotidiano locale, si interessi alla questione ed invii un giornalista ad approfondire la storia della catasta. Ne nasce un caso di interesse internazionale e «un grande museo di New York […] chiamato con una buffa abbreviazione, come una parola che un bambino non riuscisse a pronunciare correttamente», offre tre milioni e mezzo per comprare la catasta e farne un pezzo della propria collezione. I ragazzini accettano e vendono ‘il significato’. Pierre Anthon vince:
Se davvero queste cose avessero avuto un significato non le avreste vendute, o mi sbaglio?».
I ragazzini sanno che Pierre Anthon ha ragione ma non possono ammetterlo. Lo sfacciato fuori dal coro, l’antipatico coetaneo che per protesta sale sul susino e fornisce la sua sgraziata lettura del non-significato della vita ha prima attirato a sé la curiosità dei compagni, sfociata in una sfida a tratti macabra, ma ora è troppo: le dinamiche con cui, alla fine del romanzo, il gruppo di Tæring si scaglia contro Pierre Anthon possono essere spiegate attraverso uno schema che vede questi ultimi divenire i persecutori di un capro espiatorio: Pierre Anthon, colui che ha osato attentare alla tranquillità del mondo ordinato. Scrive René Girard:
I persecutori finiscono sempre per convincersi che un piccolo numero di individui, persino uno solo, possa rendersi estremamente nocivo all’intera società, malgrado la sua debolezza relativa. È l’accusa stereotipata che legittima e facilita questa credenza giocando, con ogni evidenza, un ruolo mediatore. Essa fa da ponte tra la piccolezza dell’individuo e l’enormità del corpo sociale.
E le conseguenze, a schieramenti fatti – il gruppo da una parte, Pierre Anthon dall’altra – sono inevitabili: i ragazzi, con la violenza della folla inferocita, uccidono Pierre Anthon a calci e pugni; poi danno fuoco alla segheria con dentro la catasta. Sempre Girard:
La folla […] cerca dunque una causa accessibile che sazi la sua brama di violenza. I membri della folla sono sempre dei persecutori in potenza, perché sognano di purgare la comunità dagli elementi impuri che la corrompono, dai traditori che la sovvertono.
Come giudicare, dunque, i comportamenti del gruppo narrato da Teller?
In Niente, la mancanza del tradizionale sguardo dell’adulto, della logica, dell’esperienza, non consente un’analisi convenzionale. Non c’è giudizio, se non quello di Pierre Anthon. E cosa avviene dopo la sua analisi? Il gruppo si autoregola e Pierre Anthon, adolescente forse più maturo, forse più consapevole, ne viene estromesso mediante la sua uccisione. Nessuno però giudicherà i ragazzi, che rimarranno impuniti nonostante abbiano appiccato un incendio, nonostante si siano resi colpevoli un omicidio.
Nell’ipotetico scenario della casa abbandonata, sarà lo stesso. Il giudizio esula dal mondo dei grandi e, dunque, chi partecipa alla spedizione è coraggioso, chi non partecipa è un cacasotto.
Rimettiamo insieme realtà e finzione. Nel romanzo l’esclusione degli adulti consente la percorribilità della trama, dando la possibilità a Pierre Anthon di arrampicarsi sul susino e di rimanerci per mesi, senza che nessuno lo vada a tirare giù, senza che lui abbia effettivamente necessità di bere, mangiare, lavarsi, coprirsi. D’altro canto, però, veniamo anche immersi nelle dinamiche di una microsocietà autogestita, aderente alle vite reali degli adolescenti, di cui spesso i genitori conoscono solo la patina esterna.
E a proposito di storie vere, quella degli impavidi dentro la casa abbandonata è così diversa da quella dei compagni della classe 7A? Una narrazione, se ben contestualizzata come in questo caso, è una realtà alternativa ma perfettamente coerente.
(Pierre Anthon, scendi, a tavola!)