In copertina: “Ritornano le foreste” di Tullio Pericoli
Ci sono città che hanno la fermezza delle cattedrali, solide nella loro storia e nel pensiero di chi le abita. E poi ci sono città che fuggono da qualsiasi tentativo di definizione, che sorgono come vessilli anarchici, fedeli unicamente al proprio cielo. Ascoli Piceno sembra appartenere a quest’ultima categoria.
Esiste Ascoli Piceno?, edito da Adelphi, ha il merito di richiamare l’attenzione sui luoghi marginali, sulla periferia italiana dimenticata dai notiziari e dai grandi libri. Il libretto, esile e schivo come la città di cui tratta, porta la firma di Giorgio Manganelli. Agli inizi degli anni Ottanta, infatti, la rivista Marka di Ascoli Piceno chiede all’autore un breve contributo – un racconto di due o tre cartelle. Alla proposta Manganelli risponde con un formidabile depistaggio narrativo: ovvero negando l’esistenza della città. Ed è proprio questo a farsi pretesto affabulatorio, quindi oggetto della narrazione: continuando a negare la sua esistenza, chiedendo retoricamente – a sé stesso e al lettore – di cosa potrebbe parlare nel suo intervento, e dichiarando dunque l’impossibilità di una tale operazione, di fatto costruisce una trama-non trama che conclude senza sciogliere il dubbio iniziale, ma anzi tematizzandolo. «Il punto è: esiste Ascoli Piceno? Ricordo di averla visitata in una esistenza che, per molti indizi, dovrei considerare precedente; quello che non ho potuto stabilire è se Ascoli Piceno esiste ora. Rammento di aver bevuto l’anisetta in una piazza estremamente decorativa; ritengo improbabile che una piazza così fatta esista veramente; probabilmente è un’allucinazione, come la parola “rua” per designare una strada, o le olive ripiene».
Ma se l’esistenza di Ascoli crea non pochi dubbi, è certa quella degli ascolani? Tullio Pericoli, pittore e ritrattista tra i più noti in Italia, che di quelle colline e di quei calanchi è figlio anagrafico e artistico, sembra confermare ogni dubbio: «Infatti, quale ascolano non è convinto che nella sua vita veglia e sonno “a fatica si distinguano”, come dice di sé Manganelli?». Nato a Colli del Tronto, ma da anni residente a Milano, il pittore commenta il testo manganelliano e ne ricostruisce in breve la genesi, cedendo qua e là a slanci lirici, alternando a un tono nostalgico picchi di ironia: «Accertata l’esistenza del testo, restano i dubbi a proposito di Manganelli: se sia mai salito su una corriera per Ascoli, se abbia mangiato le olive ripiene, se abbia preso un caffè da Meletti, se abbia passeggiato per le “rue” della città. Sulle rue nascono dubbi più fondati, perché alcune sarebbero state davvero un po’ troppo strette per lui», scherza facendo riferimento alla corpulenta fisicità del milanese. A inframmezzare i due testi, una manciata di cartoline dell’artista restituiscono l’immagine elusiva della città, i suoi profili slavati, la sua estatica bellezza.
E di Pericoli, in questi mesi, abbiamo una traccia nel centro storico ascolano. Infatti nella stessa piazza «estremamente decorativa» dei portici medievali e del caffè Meletti, il trecentesco Palazzo dei Capitani ospita fino al 3 maggio del prossimo anno la mostra Forme del paesaggio. 1970-2018, dedicata alla sua arte pittorica. L’esposizione attraversa a ritroso la carriera artistica del Pericoli paesaggista, in un percorso che partendo dalle opere più recenti giunge a quelle giovanili.
Così, nella prima sala, troviamo i dipinti realizzati in seguito al sisma che ha colpito il centro Italia nell’agosto 2016. Amatrice, Pescara del Tronto, Accumuli affiorano sulle tele sotto forma di linee spezzate, rette bianche deflagrate e confuse; ma proprio lì, tra le geometriche macerie, ecco spuntare una lingua verde, un germoglio come un flebile grido di speranza a fare capolino dal disastro. «Ho potuto così guardarli e fissarmeli nella memoria da tanti punti di vista, alti, bassi e obliqui, sognarli, pensarli e tradurli nella lingua che so parlare meglio». Proseguendo nel percorso, ovvero all’indietro nel tempo, le pennellate si fanno più decise, i colori e i contorni più riconoscibili, ma non per questo mimetici: i paesaggi rappresentati mantengono quel qualcosa di indefinito, di indefinibile, forse a sottolineare la fuggevolezza della stessa gente che abita quei luoghi. «In realtà sarebbe sbagliato parlare di pittura di paesaggio, Pericoli non si è ispirato a Lorrain, a Constable o agli impressionisti. Egli piuttosto, guardando in prospettiva o dall’alto, riduce appezzamenti di terreno, fazzoletti di terra arati, boschi, colline e cieli a variazioni interminate di un patchwork che si stempera in astrazioni successive; e mentre astrae tuttavia interroga la materia che esplora», dice di lui Umberto Eco. Attraverso questo procedimento la pittura richiama a sé ricordi, impressioni personali, profumi e colori della memoria. E così più avanti, dove il gesto pittorico, incontrando la dolcezza dell’acquerello e i contorni netti delle forme, si fa ancora più astratto, metafisico, evocazione di mondi mentali, di fantasmagorie che hanno lontani echi di vita vissuta, di scorci cittadini e agresti. Secondo Fausto Melotti, scultore tra i massimi esponenti del Razionalismo italiano, «nei paesaggi di Pericoli lo slancio della fantasia frantuma il racconto e lo rifugia inaspettato in uno spazio al di fuori della logica».
A conclusione di percorso, lo spazio grafico si fa preistorico: le tele non sono più semplici tele, ma grossi pannelli che raffigurano un ambiente primitivo, quasi che le Marche fossero tornate ad essere uno stagno per dinosauri. Chiodi ammucchiati fungono da chiome d’albero, che sgorgano come piccole fontane dalle viscere della terra; sullo sfondo cieli plumbei e piccoli vulcani che paiono essere lì da sempre; materiali acrilici raschiati, condensati in solidi strati, stesi a tecnica mista a riprodurre l’orogenesi del mondo, il suo assestamento in itinere o una sorta di equilibrio precario, appena raggiunto. Sono le Geologie. Rappresentazioni di un mondo a-storico, pre-umano, di paesaggi tanto antichi quanto eterni: l’autore, gettando un occhio alle remote ere geologiche, risale alle origini di sé attraverso le origini del mondo, e, una volta riemerso, ne fa un reportage che ha la forza della materia grezza, e la voce sibilante dell’anima. Quasi che voglia rintracciare tra quelle lande un antenato, una risposta ai perché, un’integrazione nella sostanza più profonda dell’essere. Una ricerca pittorica che si fa identitaria, che svela l’urgenza di trovare delle radici, saperle ben salde, quindi riportare al quesito originario: esiste Ascoli Piceno?