Mojados, “bagnati”, è il nome che la polizia di confine dà ai migranti che dal Messico si spostano negli Stati Uniti lungo il Rio Grande. Il fiume segna per quasi tutto il suo corso un lungo tratto della frontiera, da El Paso a Brownsville, ma il destino dei mojados non è morire per l’acqua, quanto piuttosto per la sua assenza. La causa principale delle morti è infatti il grande deserto che si estende sul confine, sfruttato dagli Stati Uniti come elemento di inefficace deterrenza nei confronti dell’immigrazione; una territorio mortale, esteso tra Arizona, New Mexico e Texas, dove opera la migra, la polizia di frontiera.
Per raccontare l’esperienza passata al confine, Francisco Cantù ha raccolto le sue memorie in Solo un fiume a separarci – Dispacci dalla frontiera. Cantù, di origini ispaniche, studioso accademico delle zone frontaliere, decide di arruolarsi nella migra per osservare da vicino il fenomeno migratorio. Ciò che troverà, però, sarà una realtà atroce, in cui la crudeltà è spartita tra il deserto, le bande di trafficanti di droga e migranti e la stessa polizia. Cadaveri di bambini con gli arti sbrindellati dalle bestie, narcos che rinchiudono centinaia di migranti in case/prigioni sulla frontiera, ricattandone le famiglie con la promessa di un passaggio sicuro, poliziotti che svuotano gli zaini abbandonati dai clandestini in fuga pisciando sul contenuto, sono solo alcuni quadri che affollano i racconti dell’autore e ne violentano le notti insonni.
Quest’esperienza infernale è raccontata da Cantù in tre parti, seguendo le fasi del servizio, dall’arruolamento all’abbandono delle attività. Il desiderio dell’autore è superare le cifre, le statistiche e i dati, in un intento dichiaratamente narrativo piuttosto che giornalistico: «È difficile, ovviamente ragionare su numeri simili in modo concreto e allo stesso tempo rispettoso. Il numero dei decessi sul confine, come quello degli omicidi della narcoguerra […] non dice nulla del modo in cui la violenza attraversa e squassa una società, la vita e la mente dei suoi membri». Per questo motivo si rende necessario un racconto che permetta un’elaborazione del vissuto e questo, ci dice Cantù, vale tanto per i migranti quanto per chiunque altro venga coinvolto in questo processo storico, dal resto della popolazione a chi presta servizio.
La narrazione, assumendo la forma del dispaccio, prosegue in maniera frammentata, come una sequenza di orrori e testimonianze, continue ed estenuanti, con l’eccezione della più coesa terza parte. Gli episodi si susseguono in maniera spesso indipendente, creando una narrazione dispiegata in paragrafi non più lunghi di un paio di pagine. Una scrittura fortemente diaristica, la cui narratività viene peraltro fittamente punteggiata da excursus di ogni genere (storici, letterari, antropologici ecc.), dal sapore saggistico, che interrompono l’esposizione dei fatti.
Questi passaggi teorici, oltre a voler fornire al lettore un background culturale sul tema, hanno anche lo scopo di rispondere a un interrogativo fondamentale: come si fa a comprendere un mondo pervaso dall’orrore? Quali radici ha la violenza che lo anima?
Per decifrare le risposte Cantù ricorre al più disparato armamentario teorico: le “ferite morali” di David Wood come aspetto della disumanizzazione di chi assiste agli orrori delle narcoguerre; passaggi dell’Antigona di Sara Uribe (una riscrittura del dramma greco in chiave migrante), la teoria dello Stato di massa di Jung come luogo ideale di rifiuto dell’alterità o le analisi di Jane Zavisca, professoressa di Sociologia all’University of Arizona, sulla lingua usata dai media per parlare di immigrazione. Eppure, nonostante questi inserti, la realtà fattuale sembra nullificare ogni teoria. Le nozioni, le date storiche, le idee si infrangono contro la brutalità della realtà in cui è immersa la zona di confine; nessuna delle scienze chiamate in causa può sanare le ferite concrete di quella violenza, non ne può spiegare le intime conseguenze. Tutte le storie particolari, che scorrono tra le righe del volume, fanno cozzare le scienze logiche contro un’irrazionalità inspiegabile che sembra riempire di sé il luogo, prima ancora che le persone.
Di questa irrazionalità fa parte anche il ruolo controverso della migra. Se da un lato infatti gli operatori frontalieri si adoperano per rintracciare i migranti prima che rischino la vita nel deserto, spesso salvandoli da morte sicura, è proprio la stessa polizia (e la politica che essa incarna) ciò che forza i migranti alla clandestinità come unica scelta. Lavorare nella migra diventa per l’autore un problema etico: «ci sono giorni in cui sento che sto diventando bravo in quel che faccio. E poi mi domando cosa voglia dire, essere bravi in questo mestiere».
Questo dilemma, che mescola indistintamente buoni e cattivi, serpeggia fin dalle prime pagine ed emerge nella terza parte, ponendo Cantù di fronte alla propria impotenza verso il sistema.
La sezione ruota attorno alla figura di José, amico dell’autore, immigrato irregolare negli Stati Uniti trent’anni prima, lavoratore e padre di famiglia, José torna in Messico per assistere la madre morente e da quel momento gli viene impedito il rientro negli USA per la mancanza di documenti ufficiali. La vicenda coinvolge così in prima persona l’autore, il cui istinto di aiuto verso l’amico si mescola al turbamento per aver partecipato allo stesso meccanismo (senza provarne mai le conseguenze) e a un disperato istinto di redenzione. José e la sua famiglia sono gli specchi con cui l’autore riesce a vedere le contraddizioni e il dramma che hanno corroso la sua esistenza: «“Ciò che voglio dire è che impariamo la violenza osservando gli altri e scoprendo che è connaturata nelle istituzioni. E poi, pur senza averlo deciso, diventa qualcosa di normale, una parte di ciò che siamo addirittura […]. Magari vorresti […] scrollartela di dosso, ma non è semplice.”» gli dice sua madre.
Il dramma personale connette tra loro le varie parti del testo, ricomponendo questa scrittura “atomizzata”. Volgendo al termine, la storia dell’autore illumina una nuova prospettiva, mostrando come nessuno possa essere semplicemente osservatore di una realtà, ma le dia costantemente forma attraverso le azioni. Nella presa di coscienza che non esistono soluzioni alla violenza e al dolore e che nessuno è semplice spettatore, all’autore così come al lettore, rimane l’esercizio della pratica, la consapevolezza che può dare il racconto di chi ha toccato con mano l’orrore che germoglia nella fertilità dell’indifferenza. Essere coinvolti significa cambiare paradigma di giudizio verso sé stessi e verso i migranti, come riassume lo stesso José: «Vedi, ogni volta che cerco di passare il confine rischio la vita. […] Chiunque tenti la traversata è esposto a questo rischio. Sappiamo che nel deserto e nelle montagne si celano molti pericoli. La mafia, la migra. Ci sono puma, serpenti. Ci sono dirupi e canyon profondissimi. E niente acqua. […] I giudici [che stabiliscono il rimpatrio ndr] se conoscessero la realtà, sarebbero consapevoli del fatto che mandano questa gente incontro a una morte certa. La mandano a suicidarsi.»