Oramai l’avventore dei libri di Roberto Bolaño ha appreso che anche in un mediocre campeggio «senza tante regole, senza tante risse, senza tanti furti» nella più anonima cittadina turistica della Costa Brava crescono immancabilmente i frutti del noir. Per chi ha seguito le pubblicazioni o ripubblicazioni di Bolaño per i tipi di Adelphi, La pista di ghiaccio (uscito nel 1993 in edizione limitata come opera vincitrice del Premio Ciudad Alcalá de Henares, già diffuso in Italia da Sellerio nel 2004 e ora riproposto nella traduzione di Ilide Carmignani) completa una topografia familiare, caliginosa e allucinata. Qui infatti il lettore navigato ritroverà l’irrequieto Messico dei poeti de Lo spirito della fantascienza, l’Hotel del Mar de Il Terzo Reich, gestito dalla stessa «vedova tedesca» (Frau Else) di fronte al quale lo stesso «gigante sfigurato» (il Bruciato) noleggia i pattìni, la costa catalana dove Carlos Wieder approda in incognito al termine di Stella distante. Persino il campeggio dove lavorano due dei protagonisti de La pista di ghiaccio, lo Stella Maris, è palesemente l’Estrella de Mar di Anversa, primissimo «romanzo» dell’autore, una collezione di schizzi poetici in prosa senza trama ovvia né punti di vista fissi in cui una delle pochissime ancore sembra essere il ritrovamento di una ragazza morta. Era il 1980, e Bolaño, come il suo alter ego ne La pista di ghiaccio, faceva realmente il guardiano notturno in un campeggio nei pressi di Castelldefels. Se da allora la prosa dell’autore si è fatta più intellegibile, non si può dire che sia mutata la sceneggiatura di base.
Questa volta, la vittima viene rinvenuta in un luogo quantomai bizzarro. Dissanguato, un corpo di donna ripetutamente vilipeso giace al centro di una misteriosa pista di ghiaccio fatta costruire per la sua musa da un piccolo tiranno locale nel cuore di una villa abbandonata, il «labirintico, caotico, incerto» Palazzo Benvingut, che già di per sé si erge come monumento alla follia. L’assassino dev’essere stato in grado di raggiungere la sventurata sul ghiaccio, il che –– com’è ovvio –– non è da tutti. Per ricostruire la vicenda, si alternano sotto la luce dell’interrogatorio le voci dei tre protagonisti, che intessono un romanzo polifonico in cui la verità viene sempre e soltanto sfiorata e si delineano i contorni di un delitto senza soluzione. Uno degli inquisiti è il «poeta messicano, indigente» Gaspar Heredia, probabilmente maschera dello stesso Bolaño all’altezza del 1980. Gaspar, privo di permesso di soggiorno e di lavoro, vive «in una specie di Purgatorio indefinito» e pertanto accetta un lavoro come guardiano offertogli da un amico dei tempi della giovinezza «energica e ignara, frammentata e innocente» trascorsa a Città del Messico. Si tratta di un’altra delle tre voci narranti, quella di Remo Morán, già protagonista de Lo spirito della fantascienza, che ora ritroviamo come gestore dello Stella Maris e di una serie di attività commerciali nella cittadina catalana di Z. Cileno, tabagista, autore di un libro –– San Bernardo –– che «racconta le avventure di un cane di quella razza o di un uomo di nome Bernardo poi santificato, o di un malvivente che risponde a quel soprannome», Remo condivide con il terzo imputato, il politicante Enric Rosquelles, una passione smodata per Nuria, inafferrabile campionessa di pattinaggio sul ghiaccio, con la quale instaureranno un teso triangolo di amori maldestri o non corrisposti.
Perché da subito l’omicidio si rivela essere il pretesto per raccontare un incrocio di vite sbandate e sospese sul nulla. Attorno alla pista di ghiaccio, centro nevralgico e onirico da cui s’irradia un reticolo di ossessioni sentimentali e non solo, procediamo, per esempio, al passo dell’inseguimento disperato di Gaspar, che cerca una traccia della scia intermittente lasciata dall’emaciata Caridad, inquietante e affascinante al tempo stesso, riconoscibile per il grosso coltello da cucina che porta sempre con sé. O ancora, dopo averlo visto alle prese con la sua educazione sentimentale ne Lo spirito della fantascienza, assistiamo ai devastanti effetti che l’innamoramento gioca tuttora su Remo:
[D]isse che mi avrebbe telefonato. Riuscii solo a dire che poteva chiamarmi quando voleva, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Probabilmente ci misi troppa enfasi. La cosa la infastidì un po’ e distolse lo sguardo. Ebbi l’impressione che pensasse che andavo troppo in fretta. Sei innamorato di me? Non innamorarti, non innamorarti, sembrava volermi dire. Mi sentii fragile e imbarazzato come un adolescente…
Nel mezzo di una foschia estiva «ideale per Jack lo Squartatore», cresce un pervasivo senso di disgrazia imminente che non risparmia nessuno, e certamente non i coloriti personaggi secondari, che sembrano usciti da una pennellata di Goya: l’avvinazzato Carajillo, forse un veterano della Guerra Civile, di cui con dolore rievoca le atrocità benché non chiarisca mai quale fosse il suo schieramento (e alla quale aggiunge particolari improbabili e sospetti); Lola, l’ex moglie di Remo, un’assistente sociale «enormemente portata per la felicità» ma confinata nella banalità della classe media; l’esule poeta peruviano che nomina i paesi in cui ha vissuto «come un ex detenuto elenca le prigioni in cui ha consumato la sua giovinezza»; Carmen, cantante lirica decaduta e ora clocharde che imbratta di merda i bagni dello Stella Maris; il Recluta, un barbone psicotico che sembra «un pupazzo, o un nano che d’improvviso avesse deciso di crescere» e sputa massime sapienziali da «lunghi denti da coniglio, macchiati di nicotina». E persino la stessa Nuria, a cui una bellezza botticelliana non impedisce di sognare di vivere nel paradiso tropicale di Laguna Blu, e che invece è costretta a fare i conti con un mondo ostile e corrotto che trama contro la sua grazia e il suo talento.
Senza mai condensare del tutto quest’atmosfera, tanto circense quanto manicomiale, il testo si muove in equilibrio perfetto sul filo teso tra il realismo grottesco e «il mistero, il senso di sospensione della realtà». Accanto a uno sfacelo ineluttabile, imprecisato e indefinibile, brillano piccoli e sparuti istanti di grazia, come quelli regalati da un’inconsapevole Nuria che danza sull’infausta pista di ghiaccio, come una ninfa o una principessa rinchiusa all’interno di un castello maledetto. Così, violenza e bellezza si contrappesano senza annientarsi, benché rimangano costanti la minaccia e la tensione che risultano dallo scontro, come nel sogno di Enric Rosquelles in cui la macchina del ghiaccio impazzisce e ricopre di gelo tutto il Palazzo, mentre fuori divampa un fuoco apocalittico che finirà per sciogliere ogni cosa. Al centro del labirinto, la pista che dà il titolo al romanzo è appunto tanto il luogo del delitto quanto il sito dell’epifania. «In fondo» confessa Gaspar «sapevamo solo che eravamo sospesi nel vuoto», esplicitando il senso di vertigine e impermanenza che domina il racconto. «A volte, la notte, […] pensavo alla pista di ghiaccio e quello sì che mi faceva paura. Paura di trovarmi davanti qualcosa della pista, rimasto lì impigliato, nascosto nel buio». Ed è proprio la paura –– che per uno dei personaggi si manifesta principalmente nella paura di morire da soli, perché chi si spegne in solitudine non può dire addio a chi ama –– a spingere la mano verso il volto caro nel buio della tenda, a far cercare la voce desiderata all’altro capo del telefono, e persino a portare all’omicidio, in un’assurda uguaglianza di esiti e moventi nella quale tutti sono complici e tutti sono innocenti o in buona fede.
In un testo così lontano dalle rudimentali idee di verità e giustizia non si arriva ad alcuno scioglimento soddisfacente del delitto, pur non mancando svelamenti e colpi di scena che costantemente rinforzano un inganno dal gusto squisitamente letterario. (Parlando per bocca di una delle sue marionette, Bolaño si tradisce con un’ammissione: «A volte la mattina, quando faccio colazione da solo, penso che mi sarebbe piaciuto fare il detective»). Questo accorda ai personaggi una forma, per quanto ambigua, di redenzione. Persino Enric, cerebrale e viscido, grasso, goffo e impacciato, spietato e machiavellico coi suoi sottomessi tanto quanto debole e remissivo (un «perfetto chevalier servant») con le donne, detestato e detestabile dall’inizio alla fine, inventandosi pigmalione regala al mondo qualche squarcio di gioia. È un’ambiguità che l’essere umano condivide con la natura, per esempio con «gli alberi che si chiamano querce e quelli che si chiamano pini, che magari vengono ingoiati da un incendio e con una pisciatina sporca subito ricrescono» a nuova vita.
Bolaño confessò di aver scritto Anversa per se stesso, per rifarsi della delusione di una campeggiatrice che si concesse a tutti tranne che a lui –– una di quelle situazioni, insomma, in cui, per usare le parole di Gaspar, «leggere poesie […] non è una consolazione. Nemmeno ubriacarsi. Nemmeno piangere. Nemmeno chiodo scaccia chiodo». A testimoniare l’enigmatico, struggente e meraviglioso intreccio della vita in divenire, invece, giunge la letteratura, in cui bene e male, bellezza e orrore, creazione e distruzione si avvinghiano e si inseguono come pattinatori sulla pista. Sospeso di fronte a un futuro gravido di angosce e di promesse fragili come il ghiaccio su cui posano, al malinconico termine della stagione estiva si chiude il romanzo, mentre fuori il mondo continua, «imperturbabile, il suo corso nel vuoto».