Dell’accettazione del rifiuto: da Dante a Massimo Ranieri

di Clorinda Palucci


Prima di cantare alla sua donna che se bruciasse la città lui correrebbe da lei, Massimo Ranieri si dedica anche ad altre ammissioni. Tipo:

Se bruciasse la città
Lo so, lo so
Tu cercheresti me
Anche dopo il nostro addio
l’amore sono io per te

Le parole sono di Giancarlo Bigazzi e il pezzo, che è del 1969, insieme a Io vagabondo dei Nomadi è il cavallo di battaglia di generazioni di cantanti da karaoke a matrimoni, anniversari, compleanni. Pietra miliare della celebrazione dell’amore pop, l’abbiamo sentita così tante volte che all’attacco del ritornello non si può che rispondere: Da te, da te, da te io tornerei. Cosa che ho fatto anche durante l’ultimo ascolto. Poi mi sono fermata su questo passo: l’amore sono io per te. Prima ho pensato fosse un po’ forte. Dopo, mi sono sentita infastidita. Chi canta non solo immagina che sarebbe il primo ad essere cercato in caso di evento catastrofico (la città che brucia è apocalisse, fine di tutto, disperazione), ma ha anche la pretesa di definire chi sia l’amore per l’altra: io (anche dopo il nostro addio e quindi, si presume, una rottura!). Più giù, la veemenza non scompare:

Ma se in fondo al cuore tuo
c’è un ragazzo sono io 
Ma chi l’ha detto ma perché 
non devo più pensare a te

È sempre lui che decide, anche se si tratta dei sentimenti di lei; chi parla entra prepotentemente (quasi fisicamente, sembra vederla con gli occhi) nell’area emotiva della destinataria e per capirlo basta soffermarsi su un passaggio: ma se in fondo al cuore tuo c’è un ragazzo, sono io. La connotazione spaziale “in fondo” ci rivela che c’è evidentemente un cuore: possiamo immaginarcelo come una scatoletta in fondo alla quale, se proprio-proprio dev’esserci un uomo, quello è colui che sta parlando, il quale è innamorato e desidera solo che lei riconosca di pensarla come lui. 

Ma vale la pena ragionare anche di altro: chi parla sa qual è la verità, non ammette obiezioni, e lo rileviamo anche stavolta tornando sul testo che è pieno di verbi coniugati al presente indicativo, il modo dell’obiettività, della certezza (fatta eccezione per i luoghi in cui l’uomo dice che supererebbe il fuoco per la sua donna e nel ritornello). L’inanellarsi dei presenti indicativi, che nelle narrazioni spesso hanno funzione riportiva (letteralmente, riportano ciò che accade) in questo caso sembra poco ragionato, non ci racconta una storia ma accelera il ritmo; dà una sensazione di confusione e caos, anche per la scelta di alcuni verbi: il cuore mio non dorme mai, impazzisco senza te, da te io correrei. Sì, sembra proprio che chi canta sia tormentato. Lorenzo Gasparrini nel capitolo “No ai sentimenti” del suo saggio dedicato al rifiuto (NO. Del rifiuto, di come si subisce e di come si agisce, e del suo essere un problema essenzialmente maschile, effequ, 2019) indaga il tipo dell’uomo passionale e la passione giustificatrice, elemento che accompagna spesso i protagonisti maschili nelle narrazioni amorose:

L’”uomo passionale” è anch’esso uno stereotipo, creato per giustificare qualsiasi comportamento, dovuto a una fiducia in se stessi tanto intensa da far sentire in diritto di imporre la propria volontà. […] L’uomo passionale non ha rispetto giacché questo frenerebbe la sua passione, tendendo a disciplinarla e a inquadrarla, quando invece l’uomo passionale in preda alla sua passione parla, grida, vuole, si agita, spinge gli altri, trasmette la sua enfasi con le urla, con le mani, con le gambe, con un sacco di altri organi.

Ma accanto a queste enfatiche rappresentazioni di sofferenza e passione persiste un sotto testo che relega l’innamorato a una condizione di sudditanza nei confronti della donna. In effetti:

L’uomo passionale, tra le altre cose, decide da solo qual è l’oggetto della sua passione, specialmente una donna – anche se, sfruttando la connotazione passiva della parola, racconta che è dominato da lei, che comanda lei.

Il solo pensiero che una donna rimanga indifferente di fronte a un sentimento nobile come l’amore lascia sgomento chi canta, che oltre a provarlo, l’amore decide di esprimerlo (e sottoporlo quindi a una condivisione, entrando in una dimensione comunicativa). Ribadire l’esistenza di questa polarizzazione è necessario e apre a una riflessione sulla percezione, la manifestazione e l’accettazione o meno dell’amore nella cultura occidentale. Sempre Gasparrini infatti ricorda che

Il rifiuto in risposta all’espressione dei sentimenti assume rispetto a quello sessuale tutt’altra valenza morale, perché siamo abituati da una cultura occidentale, che ha dedicato secoli a consacrare l’amore come il più nobile dei sentimenti, ad averne in ogni caso rispetto.

Proviamo a interrogare questa cultura occidentale e andiamo ai primordi della lirica amorosa per come la intendiamo ancora oggi, ovvero alla tradizione cortese. Il mondo all’interno del quale si sviluppa la poesia cortese è quello feudale: il microcosmo di cui parliamo è fatto (spesso anche dal punto di vista strutturale) di un castello cinto dalle mura e di una corte, uno spazio chiuso. In effetti, come ha studiato E. Köhler in Sociologia della fin’amor (1976) quello della cortesia, ancor prima che letterario, è un fenomeno di tipo sociale che si spiega proprio a partire dalle dinamiche di potere instaurate all’interno della corte. Non a caso, i primi trovatori di cui abbiamo notizia sono i cavalieri senza feudo, iuvenes, una classe socialmente ed economicamente emarginata, che dedicava versi d’amore alle donne dei signori per ambire a varie forme di ascesa sociale. Infatti, nei componimenti provenzali molto spesso ricorrono termini come pretz, merce, cabaus che rispondono a significati economici, di valutazione materiale, prezzatura. 

In D’amors, qui m’a tolu a moi, una canzone composta intorno al 1170, Chrétien de Troyes scrive: 

Cuers, se madame ne t’a chier,
ja mar por cou t’en partiras

(Cuore, se la mia dama non ti ha caro, non per questo tu la lascerai)

L’autore di lingua d’oïl, uno dei primi romanzieri del ciclo bretone e chierico di vasta cultura, ha appena trovato, con questi versi, la soluzione a un problema cruciale nel dibattito amoroso della sua epoca, che affliggeva anche i colleghi provenzali: che cosa fa il poeta innamorato quando non è ricambiato dalla sua donna? L’inghippo era di tipo prevalentemente poetico: era necessario trovare una via d’uscita nel momento in cui lo scambio di servigi non avveniva, nonostante il corteggiamento. Chrétien l’ha trovata: la donna non accetta il suo amore? Lui continuerà comunque a cantarla e il suo cuore non l’abbandonerà. Al disinteresse della donna (Dama, ditemi se vi è gradito che io sia vostro. Certo no, se vi conosco bene; anzi vi è fastidio che vi appartenga. E poiché non mi volete, vi appartengo vostro malgrado) non segue lo stop dell’espressione del sentimento, non segue quindi l’accettazione del rifiuto.

Stendhal in De l’amour (1822) spiega così il fenomeno della cortesia:

L’amore prese una strana forma in Provenza dall’anno 1100 fino al 1328. V’era una legislazione circa i rapporti tra i due sessi in amore. […] V’era la maniera ufficiale per dichiararsi innamorato d’una donna e quella per essere accettato da lei come amante. Dopo tanti mesi di corte fatta in una certa maniera, si era ammessi a baciarle la mano.

Lo scrittore francese descrive in breve l’amore cortese per come lo si studia ancora oggi a scuola, soffermandosi sulla sua caratteristica principale ovvero la rigidità dell’aderenza a un iter, la sua scaturigine dai rituali del vassallaggio. In effetti, i versi di Chrétien de Troyes che abbiamo letto rispondono a uno schema fisso e patiscono lo stile formulare che accomuna larga parte della produzione poetica medievale (in cui abbondano i topoi e in cui la copia, il rifacimento sono spesso un valore aggiunto). 

Ancora, sempre Chrétien:

mon cuer, qui siens est, li envoi;
mes de noient la cuit servir
se ce li rent que je li doi.

(le invio il mio cuore, che le appartiene; ma di niente credo di farle dono, se le restituisco ciò che le devo)

Il cuore di Chrétien non è un dono! Esso appartiene alla dama (siens est, è suo), tanto che il poeta sente di dover specificare che le sta rendendo ciò che le deve (li rent que je le doi), forzando un rapporto, una relazione a due che è stata già rifiutata. Ma Chrétien non può proprio fare a meno di esprimere il suo amore perché lui, continua, non sa servire Amore per gioco né sa ingannarlo: la verità del suo sentimento amoroso e la sua autenticità vanno oltre il rifiuto della dama, che Chrétien sa essere certo. Il poeta è consapevole del rifiuto ma lo tratta come una sottocategoria dell’accettazione, unica scelta.

Se Chrétien de Troyes si muove, come si è detto, in un universo chiuso e colmo di formularismi e schemi ben rodati che si ripetono, l’accoglienza da parte di Dante Alighieri di questa soluzione al rifiuto ha una valenza particolare. La soluzione, l’abbiamo visto, è: continuo a cantare, lodare, poetare anche se la destinataria non accoglie il mio amore. Perché il mio cuore è suo, perché nessuna circostanza esterna può cambiare le cose e scalfire l’ingombrante manifestarsi del sentimento.

Perché l’accoglienza da parte di Dante di questo modo di pensare ci riguarda da vicino? Perché il poeta fiorentino, oltre a essere tra i più famosi e studiati dalla critica italiana, nella tradizione di poesia d’arte compie un passo ermeneutico rivoluzionario, e lo fa in Purgatorio XXIV, quando il Dante personaggio incontra Bonagiunta Orbicciani, rappresentante della scuola siciliana, della generazione di poeti che lo precede. Insomma, Dante auctor mette in scena una presentazione di sé molto chiara. Lui si distingue da quelli che sono venuti prima perché, dice:

«[…] Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».

Abbandonati gli schemi rigidi della poesia dei suoi predecessori, è Amore in persona a dettare a Dante le sue parole: lui non fa che annotare e dar loro forma e significato. È un primo accenno di Io-autore a farsi spazio tra i versi. È messo nero su bianco che questa entità con la A maiuscola si manifesta attraverso il medium del poeta: è una cosa troppo grande a dirsi, ha una potenza e un’autorità difficili da mettere in ombra.

Alla luce di questo sarà ancora più interessante quindi tornare indietro e rileggere la Vita Nova (scritta tra il 1292 e il 1294). Beatrice gli ha appena negato il saluto. Dante incontra un gruppo di donne, una di loro l’avvicina, gli chiede «A che fine ami tu questa tu donna?» e il poeta risponde che lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna e che in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii.
La donna chiede ancora a Dante di indicarle dove sia la sua beatitudine:

Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento». Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partio da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?»

Se, prima, il fine del suo cantare era il saluto della donna, adesso che lei glielo nega e vengono meno il patto, lo scambio, l’accettazione non resta che tornare alla soluzione di cui sopra. E, quindi, procedere indefessi nella manifestazione del sentimento saltando a piè pari lo step del consenso. La beatitudine di Dante non sta più nell’ottenere il saluto della donna, ma nello stesso atto del lodarla, del far poesia («In quelle parole che lodano la donna mia»). L’attenzione verso la risposta della persona alla quale queste parole che lodano sono rivolte viene completamente offuscata, tirata via. Ci sono solo il poeta e Amore; infatti Dante scrive poco dopo che la sua lingua parlò quasi come per se stessa mossa. Anche qui, la lingua che si muove da sola: c’è un intervento sovrannaturale, una potenza carismatica e divina che è impossibile osteggiare con gli strumenti terreni. L’amore va cantato, espresso, condiviso anche con chi non ne vuole sapere e, anzi, è la sua manifestazione ad appagare il poeta.

Svariati secoli più in là abbiamo visto un uomo che, dopo essersi disperato per il suo amore non ricambiato, canta ma chi l’ha detto ma perché non devo più pensare a te: anche qui non solo non ci si rassegna al rifiuto, ma sembrano rimanere ignote anche le ragioni per cui lui dovrebbe smettere di pensare a lei. Il suo sentimento è troppo grande e non si può tacere.

Ciò che intercorre tra questa concezione medievale dell’amore e delle donne e, ad esempio, il catcalling, quei complimenti che tanto non fanno male a nessuna o il persistere della struttura patriarcale che ancora detta le leggi dei rapporti tra i sessi, sono una manciata di secoli e un avvicendarsi di eventi e di storia. Ma se continuiamo raccontarci che il raffronto con questo tipo di passato sia impossibile a causa della lontananza temporale, spaziale e ideologica perdiamo l’occasione di interrogarci sulle figure con cui abbiamo fondato (e con cui continuiamo a fondare) il canone di riferimento per la nostra educazione sentimentale.

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