Stati generali: considerazioni parziali

di Clorinda Palucci


È giovedì sera, ho appena finito di mangiare la mia frittatina e afferro mollemente il telecomando. Schiaccio sul 3, appare la faccia allegra di Serena Dandini: vederla in prima serata, fino a qualche anno fa, era una tenera carezza per il  telespettatore-base della terza rete: over 40 più istruito della media politicamente non rappresentato e desideroso di uno spostamento a sinistra del partito. 

La Dandini è tornata con Stati Generali, trasmissione che decido accompagnerà la mia serata, convinta di poter così tastare gli umori di una parte di paese reale che forse mi piace, che forse dice cose giuste, moderate, e che se mi va bene fanno pure ridere. Ma che fare quando l’appuntamento comico satirico della rete col passato più frikkettone della televisione italiana diventa un wannabe programma contenitore, pericolosamente in bilico tra Colorado Café e Che tempo che fa? Andiamo per ordine.

Una premessa

Dalla Tv delle ragazze (riproposto lo scorso anno in occasione del trentennale dalla prima edizione) all’Ottavo nano, passando per Avanzi e Tunnel, la Dandini e i suoi autori hanno costruito nel tempo un format molto amato dal pubblico.
Si tratta di un modello che ha fornito nuovi moduli interpretativi e a cui ancora oggi si attinge per portare in televisione una satira politica riconoscibile, libera dall’ingessatura classica dei canali Rai; penso, ad esempio, al debito di fondo che intrattiene con il lavoro di Serena Dandini il seguitissimo Propaganda Live di Diego Bianchi e Makkox, adesso in onda su La7 (prima, su Rai Tre come Gazebo). Non a caso, la regia di Propaganda è curata da Igor Skofic, impegnato nel 2001 proprio con L’Ottavo nano. La vicinanza si individua non tanto nei contenuti  (manca del tutto, in Propaganda, la satira fatta da comici in quanto tali, nonostante ricorrano dei personaggi fissi, macchiette che hanno un ruolo definito ma sono comunque funzionali al fine ultimo della pratica del report) quanto nelle modalità espressive e soprattutto nel piglio scherzosamente disimpegnato che si riflette nel linguaggio e, sul piano visivo, nei tagli, negli stacchi delle riprese.

Il punto di partenza di questa modalità di fare televisione possiamo andarlo a rintracciare nel periodo in cui la terza rete si trasforma in un «vero laboratorio», come scrive Irene Piazzoni, con la direzione affidata nel 1987 da Walter Veltroni ad Angelo Guglielmi. La rete, fino ad allora ignorata dal pubblico, diventa un luogo dove si elabora una proposta che preveda, scrive sempre Piazzoni:

l’interesse per la realtà, la cronaca e i fatti, un disincanto snobistico per il fare televisivo assimilato per rovesciarlo e demistificarlo, un’ironia intelligente.

Questo dopo aver «studiato un nuovo e più disinvolto profilo e organizzato il palinsesto secondo una struttura orizzontale molto riconoscibile».

Parlando della Tv delle ragazze, primo programma satirico realizzato da una squadra interamente di donne, ancora Piazzoni lo definisce «fucina di talenti e idee, patrimonio prezioso per i programmi nati sulla sua falsariga e arricchiti dalla presenza di colleghi maschi che seguiranno negli anni Novanta».

Buttati giù un po’ di appunti di storia, quindi, si può concludere che i programmi della Dandini nascono e prosperano in seguito a una spinta propulsiva che ha contribuito a decretarne lo status di icone. Motivo per cui quando ancora oggi, dopo trent’anni in televisione, appare la sua faccia, scatta un’ingombrante memoria storica: le novità televisive di Serena Dandini sono irricevibili senza ciò che è venuto prima, la sua presenza conduce gli spettatori dentro un orizzonte di dinamiche stratificate che questi ultimi si aspettano di vedere riproposte e, preferibilmente, migliorate e aggiornate.

Riannodando i fili del successo – con la direzione Gugliemi la rete passa dal 2 al 10% di share! – abbiamo, quindi: riconoscibilità, novità, rinuncia al paternalismo e alla funzione di promozione culturale, insita ab origine nella nostra televisione pubblica.

Ora veniamo all’oggi, a un’analisi poco impegnata e a una riflessione sul perché un venticinquenne qualunque, guardando Stati Generali è portato a pensare per tutto il tempo: ma io mo’ apro Instagram e invece di sorbirmi i The Pills ingessati in tv me li vedo su YouTube, no?

1) “Riconoscibilità”

Il primo colpo d’occhio è riservato allo studio. Rapido momento di televisione comparata sugli studi passati: uno su tutti quello di Maddecheaò (1993), uno spin-off di Avanzi. Scenografie sgangherate piene di dettagli e oggetti buttati qua e là che riempivano la cameretta di un adolescente. Originali pure i titoli d’apertura (Scritto e orale di Serena Dandini e Corrado Guzzanti, Reggia di Valentina Amurri) che ben si inserivano nel clima un po’ dimesso e incasinato della mini trasmissione. Più grande e teatrale era invece quello di Avanzi, che ospitava anche un folto pubblico.
Anche lo studio di Stati Generali è arioso, lucido, open space, quasi elegante. Si intravedono dei neon colorati appesi al soffitto che riportano trend topic e cose che sono passate di moda da un po’, tipo i gattini e la retorica che si portano appresso. Che è il problema del rapporto tra web e tv: nel momento in cui la televisione recepisce buoni spunti dal web e li fa suoi, il lasso di tempo accelerato che esiste nell’Internet li ha già immolati sull’altare del vecchio. Noia. O meglio: se voglio vedere queste cose apro Instagram, come sopra. Algido. Uno studio non riconoscibile, appunto.

Passando ai contenuti, quello che mi colpisce subito del programma (andato in onda con sei puntate da novembre a gennaio 2020) è che porta in scena elementi mutuati dalle classiche prime serate Rai: il momento sul divanetto con l’intervista agli ospiti, l’esecuzione di musica dal vivo, i monologhi. Questi elementi sono sì caratteristici dello show in prima serata, ma la loro compresenza priva il programma di riconoscibilità.

Scoprirò, dopo qualche puntata e non senza divertimento, che a demolire parte della cornice dell’intervista celebrativa sarà un’arzilla Letizia Battaglia. La fotografa siciliana, con indosso un vistoso paio di occhiali da sole, siede accanto alla Dandini, ascolta le sue domande, annuisce. Fino a quando non restituisce involontariamente al programma un guizzo di vena comica utilizzando in modo del tutto smaliziato lo spazio a lei dedicato, attraverso uno scambio di battute con la presentatrice: 

SD: Ti definivi una borghesuccia irrequieta…
LB: Borghesuccia tua sorella!
SD: …ma l hai scritto tu!
LB: L’ho scritto io ma non lo dici tu!

Imbarazzo, sorriso di rispetto e circostanza. Ma ci sono altri elementi che, impilati gli uni sugli altri, rendono noiose le interazioni tra gli ospiti e spengono completamente ogni entusiasmo perché mancano di innovazione.

2) “Novità”

L’idea di prendere ciò che c’era di buono nel web e catapultarlo nella televisione, per un periodo, è sembrata buona. Questa mossa è stata fatta in tempi non sospetti da diversi programmi televisivi e gli esiti sono stati anche positivi. La mia impressione, in questo caso, è che questa scelta abbia impoverito contenuti che erano molto divertenti sul web cercando di forzarne l’entrata in una gabbia tematica e di linguaggio più istituzionale. Chi ha fatto prima di tutti le spese di questo silenzioso “richiamo all’ordine” sono i The Pills, i cui contributi video arricchiscono gli Stati Generali e che la Dandini dallo studio continua a chiamare Pills (non ho capito perché).

Stesso discorso vale per il caso di Federica Cacciola, l’attrice che anima il personaggio di Martina dell’Ombra. Anche lei ospite fissa, a tratti co-conduttrice: non riesco, tuttavia, a salvare né il personaggio di Martina né questo tentativo di uscita allo scoperto dell’attrice Cacciola che le sta dietro. Martina dell’Ombra è stata ricostruita ad hoc e prestata alla tv come influencer; se il punto massimo del suo apporto si risolve nel siparietto dell’Enciclopedia di Martina dell’Ombra («Immanuel Kant: padre della più famosa Eva ed esponente del romanticismo. Il cielo stellato sopra di me, il vodka tonic in me») direi che è un intervento di cui possiamo fare a meno. Non meno privo di ricerca o di slancio creativo sembra il monologo di Cacciola che, seppure mirava a porre l’attenzione su temi quali l’hate speech sul web, non ha rinunciato a una chiosa abbastanza banale («Perché il cellulare, il pc, e anche Internet, lo puoi sempre spegnere… gli stronzi, invece, non si spengono mai»). Che se non ci fossero stati gli applausi comandati, avremmo sentito il tonfo sordo del sassolino lanciato da lei stessa nello stagno delle buone intenzioni.


Poi, il collegamento su maxischermo col Raiphone (sic): questa interfaccia personalizzata che assomiglia alla home di un iPhone funziona come punto d’avvio per i lanci di sketch registrati in bassa qualità da parte di Lillo Pasquale Petrolo (il Lillo di Lillo & Greg) che tiene una mini rubrica, Tuttorial. Niente di avveniristico che anzi suggerisce che sia un modo per gli autori di assicurarsi nomi autorevoli senza rischiare di pretendere troppo: la loro presenza in studio in un programma che sembra scialbo.


3) “Rinuncia al paternalismo e alla funzione di promozione culturale”

Lo dichiaro: di questa piccola indagine questo è l’acme. La Dandini annuncia che si è iscritta a parlare (formula di rito, questa, sì, carina e in accordo col titolo che fa atmosfera) Cristina Chinaglia. Il pezzo sembra filare. Menomale, che azzardo! Il monologo si avventura in sentieri poco battuti dalla comicità degli ultimi vent’anni: uomini e relazioni, cose buffe che succedono con uomini e relazioni, cose da donne che mal sopportano gli uomini nelle relazioni e altre varianti più o meno originali. 

Poi, la nostra inizia a parlare di donne che 

si fanno i selfie alle tette col preciso scopo di mostrare le tette ma che camuffano questo istinto esibizionistico con la citazione «E il naufragar m’è dolce in questo mare»


Siamo davanti a un’idea molto antipatica e diffusa che presuppone oltre che un intento normativo preciso, stigmatizzando sottovoce l’esibizione del corpo, anche una condanna in sordina: nel sottotesto si legge che, è ovvio, se lo associ alle tue tette è improbabile tu abbia letto e capito Leopardi. Ma si riesce anche a peggiorare:

Che poi: io sono assolutamente solidale col femminismo (campanello d’allarme 1: la storia che ci ha l’amico gay a cui vuole bene), mia mamma era femminista (campanello d’allarme 2: la storia del cugino carabiniere), mia nonna addirittura faceva le sfilate per la parità di diritti (le sfilate?). Ma a volte mi chiedo: ma ‘ste lotte le abbiamo fatte perché? Per il diritto al soft porno?

Guess what, Cristina? Sì.

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