Rappare come Coltrane

di Giulio Pecci


Con un’esplosione. Si conclude così “Follow The Leader”, il brano d’apertura dell’omonimo secondo disco del duo Eric B. & Rakim: con una deflagrazione. Non c’è immagine migliore per descrivere l’impatto dei due, in particolare dell’MC Rakim, sulla scena Hip-Hop degli Stati Uniti della seconda metà degli anni ’80. Il pezzo in questione è una vera e propria dichiarazione d’intenti a partire dal titolo, “seguite il leader”: quasi sei minuti in cui l’allora ventenne di Long Island spazza via completamente il “vecchio” modo di rappare, stabilendo un nuovo standard per tutti, anche e soprattutto per le star già affermate del periodo. Un modo più interessante, musicale e intricato di inserire le proprie evoluzioni liriche al di sopra delle basi musicali: Rakim aveva tracciato una nuova strada, stava agli altri allinearsi e raccogliere la sfida. L’unica alternativa era diventare improvvisamente dinosauri di un genere musicale al contrario giovanissimo e nel pieno della sua evoluzione. 

“Giant Steps” è uno dei brani (e album) più famosi di John Coltrane. Come per “Follow The Leader” di Rakim, il titolo sembra racchiudere in sé un qualcosa di programmatico, senza quella sicurezza di sé mista ad arroganza che è parte integrante di certo linguaggio Hip-Hop. Brano e album sono infatti il momento in cui Coltrane abbandona l’hard bop ed entra in tutto e per tutto nel jazz modale, stile grazie al quale rivoluzionerà il linguaggio della musica jazz e più in generale della musica, stabilendo, anche qui, un prima e un dopo.

Coltrane è morto a New York a quarantuno anni, nel 1967. Un anno prima della nascita del piccolo William Michael Griffin Jr. che ancora teenager, affascinato dalla Nation of Islam (cui si unirà poi nel 1986) decide di utilizzare il nome Rakim Allah per la sua carriera di giovanissimo e promettente MC. La musica di Coltrane entra comunque subito nella vita del giovane Rakim: sua madre, suo fratello e suo padre sono avidi ascoltatori di Jazz, Soul e R&B e possiedono una ricca collezione di LP; inoltre sua zia è Ruth Brown, stella R&B degli anni ‘50. Inizia presto a suonare il sassofono, imparando a leggere la musica. Si avvia insomma a un vero e proprio percorso di formazione musicale, che accompagnato ai raffinati ascolti casalinghi ne sviluppa un gusto e un orecchio di molto superiore alla maggior parte dei suoi coetanei. 

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Mentre Rakim è poco più di un bambino che ascolta musica a casa dei suoi, nei primi anni ottanta il rap aveva iniziato ad andare incontro a un successo commerciale inimmaginabile per i primi pionieri del genere – fautori di innovazioni e feste leggendarie ma difficilmente tesi a immaginare un futuro monetizzabile per la loro invenzione. A partire da una prima hit costruita a tavolino come “Rapper’s Delight” della Sugarhill Gang e dal successo commerciale ancora fortemente debitore al funk e all’R&B di Curtis Bow, all’inizio degli ottanta invece non mancavano personalità che hanno ormai intuito le potenzialità dell’Hip-Hop e avevano cominciato a sfruttarle sia in campo discografico che di influenza su tutta la cultura giovanile, intuendo le potenzialità di una forma d’arte vendibile – alla grande – anche agli annoiati figli della borghesia bianca. L’evoluzione del suono dei dischi era stata abbastanza evidente e veloce, partendo dalla predominanza melodica soul e funk degli inizi per arrivare alla rivoluzione sonora di  Afrika Bambaata prima, Public Enemy, Run DMC e Rick Rubin (con la sua etichetta, la leggendaria Def Jam) più tardi, portatori di un suono scarno, essenziale, incentrato su batterie granitiche spesso unite a sintetizzatori, che per suono e attitudine poco avevano a che vedere con la tradizione musicale afroamericana da cui il genere si era originato. In un certo senso però quel che fecero fu proprio estremizzare il concetto alla base delle originarie feste hip-hop, quando i DJ cominciarono ad accorgersi che all’interno di un pezzo funk arrivava il cosiddetto momento di “break”: quando insomma per qualche momento sulla traccia non rimaneva altro che il ritmo forsennato della batteria, spogliato quasi del tutto dalla componente musicale. Il gioco diventò prolungare quell’orgasmo ritmico all’infinito, diventando abili a individuare subito il momento di “rottura” e riuscire a mantenerlo, passando da un piatto all’altro senza soluzione di continuità. 

Anche a livello di immagine, un concetto affatto secondario o superficiale, le cose si erano evolute in modo drastico solo nell’arco di qualche anno. Se ad esempio ad Afrika Bambaata viene attributo il primo pezzo dal suono radicalmente “diverso” (“Planet Rock”), basta osservare il video del brano per rendersi conto di quanto però sia lontano anni luce dalla nostra  contemporanea percezione estetica del concetto di hip-hop. Richiami all’afrofuturismo e alla sfarzosità dei super-gruppi funk del periodo, un uso smodato di pelle e pellicce, insomma indumenti volutamente esagerati e irreali che ovviamente nessuno si sognava di indossare per le strade di New York. Ci volle l’avvento di tre ragazzi del Queens, proprio i Run Dmc, per aggiornare il genere anche in quel senso: i tre semplicemente cominciarono a farsi fotografare e a esibirsi senza cambiarsi per l’occasione, indossando esattamente gli stessi indumenti che la maggior parte dei giovani afroamericani newyorkesi indossavano quotidianamente. 

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In questi anni, come detto, Rakim studiava: tanto la tradizione musicale (oltre che socio-politica) della sua “gente” quanto le più recenti incarnazioni di un genere rivoluzionario che non poteva lasciare indifferente nessun giovane. E una cosa dovette sembrargli evidente in modo sconcertante: com’è possibile che sia cambiato tutto nel giro di così poco tempo, il suono, la moda, lo stile, la percezione e il successo di questa musica ma il modo di pronunciare le parole sulle basi, di rappare insomma,  sia rimasto sempre uguale? Effettivamente se ascoltiamo Kurtis Bow e i primi Run Dmc non notiamo sostanziali differenze nel modo in cui stendono le proprie trame liriche al di sopra di basi invece drasticamente diverse. Rime a fine verso, spesso costruite su un semplicissimo schema AABB, inesistenti o quasi giochi linguistici e un senso ritmico rigoroso, che faceva sì che l’inizio e la fine di un verso si trovassero sempre sull’uno e sul quattro della battuta, ovvero precisamente all’inizio e alla fine di ciascuna frase. Per un ragazzo cresciuto suonando il sassofono, ascoltando jazz e idolatrando Coltrane e Charlie Parker, una tale modalità di utilizzare la propria voce  (letteralmente e metaforicamente) doveva sembrare insensata, se non proprio una costrizione insopportabile. In un video reperibile su Youtube, Rakim conversa con KRS One (altro MC dallo status leggendario, direttamente influenzato nel suo stile proprio da Rakim) e insiste fortemente sull’importanza del jazz e della musica di Coltrane nella sua tecnica di scrittura. L’ultima parte del video è estremamente esplicativa e molto emozionante. Rakim ammette che, grazie all’influenza della musica ascoltata e suonata da ragazzo, non percepiva il tempo dei brani come un “1, 2, 3, 4”, ma piuttosto come un “1…e…2…e…3…e…4” : è chiaro che si riferisce allo swing, quell’approccio ritmico tipico dei jazzisti, quella libertà creativa nel muoversi tra le pulsazioni del “beat”, riempiendole con creatività ed estro piuttosto che limitarsi ad andare a tempo. Come dice Winton Marsalis: “Tutti nel Jazz cercano di creare un’alternativa più flessibile al tempo reale. […] Vai a tempo quando le tue azioni sono abbastanza percettive e flessibili da rientrare nel flusso dell’unica costante: lo swing.” Il video si conclude quindi con la dimostrazione inconfutabile di ciò che sostiene Rakim, ovvero la sua tensione ad imitare i viaggi sonori di Coltrane utilizzando parole che ritmicamente riuscissero a riprodurre i suoi soli. Si lancia quindi in un “a cappella” ritmico che si conclude con un’esplicita citazione del tema di uno dei brani più famosi di Coltrane, “My Favorite Things”: la diretta somiglianza è così evidente da lasciare sorpresi, quasi entusiasti. 

 

Per sua fortuna un altro ragazzo cresciuto a Long Island, suonando batteria e tromba, oltre che ascoltando la collezione di dischi famigliare, si era ritrovato a fronteggiare le stesse limitazioni. Eric Barrier (Eric B.) era alla ricerca di un rapper che capisse il suo gusto musicale e sapesse esprimersi in modo complementare alle sue basi raffinate, un misto tra estrosi campioni e arrangiamenti funk/soul e un rivoluzionario approccio ritmico  (molto moderno e innovativo per l’epoca), tanto quanto Rakim stesse cercando un produttore che assecondasse il suo rivoluzionario modo di rappare, in quegli anni ancora inedito e spesso del tutto incomprensibile. I due si completano e come duo pubblicheranno quattro album, tra il folgorante debutto del 1987 “Paid In Full” e l’ultimo del 1992 “Don’t Sweat The Technique”. È interessante notare come gli stili dei due, in particolare nei primi due lavori, siano così tanto di rottura da risultare quasi “troppo” all’ascolto. Se alle parole di Rakim levassimo la base musicale di Eric B. rimarrebbero comunque piacevoli da ascoltare, grazie ad una musicalità e un senso del ritmo incredibilmente accattivanti; sembra proprio di ascoltare un assolo di sax e le sue evoluzioni su e giù, a destra e a sinistra del tempo. Allo stesso modo le ricche basi di Eric B. possono vivere di vita propria, e infatti nei dischi sono numerosi i momenti strumentali in cui il produttore si scatena. Due stili così singolari e “forti” riescono in qualche modo non solo a convivere –  ma anche ad arricchirsi l’un l’altro.  

Come ha scritto molto bene Cesare Alemanni nel suo recente “Rap: una storie due Americhe” (minimum fax), per tanti giovani afroamericani, spesso emarginati all’interno di difficili quartieri periferici,  il rap «era una rivendicazione linguistica tesa a riformulare tanto le relazioni simboliche all’interno di quei contesti quanto quelle con l’esterno». L’importanza di Rakim sta quindi anche nell’aver cercato quella riformulazione appoggiandosi consciamente a una delle più grandi menti afroamericane (e non) di sempre, quella di un genio creativo che continua tutt’oggi ad influenzare milioni di persone in tutto il mondo. Identificando il proprio flow, il proprio flusso, come debitore di quello di Coltrane, Rakim ha collegato in modo molto pratico quelle che forse sono le due più grandi forme d’arte americane e non solo afroamericane, il Jazz e Hip-Hop, stabilendo una connessione importante. Non solo di facciata ma profondamente musicale, innovativa – allineandosi e stabilendo un contatto. In un certo senso ricordò a tutti che l’Hip-Hop e le sue parole sono una “faccenda” afroamericana: a livello creativo, sociale e perchè no, politico. Questo in un momento storico in cui il genere era per la prima volta ammaliato dal canto delle sirene di contratti milionari e dalla tensione a voler conquistare una nuova fetta di pubblico – bianca e ricca, che con i creatori del genere non condivideva assolutamente niente. Rakim grazie ad una lucidità unica ha fatto sì che quel processo di emancipazione e rivoluzione linguistica si evolvesse e diventasse uno strumento ancora più potente, più raffinato ed influente. Un insegnamento per le generazioni seguenti, senza il quale l’hip-hop non sarebbe il genere musicale e lo stile di vita egemonico che conosciamo oggi. 

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