Il romanzo organico

di Marco Inguscio


Animali e sciamani delle pitture rupestri conservano, nella loro bizzarria, una forma di stupore artistico tutt’altro che ordinaria. Sulle pareti della grotta di Chauvet, in Francia, i disegni di animali datati 30.000 anni sono raffigurati con un set di zampe aggiuntive. Recentemente è stato suggerito che, lontano dall’essere un ingenuo errore della rappresentazione, quegli arti addizionali fossero il tentativo di raffigurare una forma di vita in movimento. C’è qualcosa in quelle pitture che fa pensare al mondo nella sua prima adolescenza, all’arché di ogni ispirazione.

Se tracciassimo idealmente un percorso che segua l’evoluzione della nostra urgenza espressiva almeno negli ultimi 35.000 anni, percorrendolo dalla fine del paleolitico a oggi, troveremmo a un capo le pitture rupestri e il terio-antropomorfismo, dall’altro invece Embassytown, romanzo del New Weird inglese – genere sintesi del fantasy – scritto da China Miéville, e la teoria della letteratura di un docente italiano che ha come scopo il rifiuto della contrapposizione strutturalista fra natura e cultura.

La teoria in questione giunge da Alberto Casadei, docente di Letteratura all’Università di Pisa, e ha un approccio decisamente poco tradizionale all’analisi letteraria. Casadei prende sul serio la citazione shakespeariana che ci vuole fatti della stessa materia dei sogni, e di quella materia fa il centro della propria ricerca. In Biologia della Letteratura (2018) sono esposti i processi che hanno condotto l’essere umano all’espressione artistica, a costruzioni simboliche sempre più complesse, rispondendo a esigenze di adattamento, sopravvivenza e ritualità, nel tentativo di conferire ordine al mondo. Per Casadei i processi creativi sono influenzati da «presupposti biologici», il cervello umano rielabora la stimolazione dell’intorno attraverso i sensi, conferisce significato a queste esperienze e le trasforma in forme, miti e metafore. Muovendosi nel solco del cognitivismo, Casadei interpreta la inventio letteraria, ciò che chiameremmo ispirazione, come il frutto di un modello graduale, scalare, risultato di processi individuabili nell’antropologia e nelle neuroscienze. Non ipotizza un determinismo fisiologico nel processo creativo, la condizione storico-sociale e i suoi particolari strumenti retorici sono ancora presenti, ma al fondo vi è l’idea che la letteratura e l’arte in genere rispondano a un’esigenza fondamentale, motivabile a un livello biologico-cognitivo, e che queste propensioni siano reimpiegate e accresciute nell’elaborazione artistica. Lo stile, per Casadei, è il punto d’incontro tra natura e cultura.

In nessun passaggio del suo lavoro Casadei fa riferimento alle opere di China Miéville o ad altri autori del New Weird, eppure i mondi assemblati dallo scrittore inglese si prestano straordinariamente bene, per sistematicità, immagini e suggestioni, alla biologia della letteratura. Si può rileggere la sfera descrittivo-simbolica di Miéville obliquamente, e motivarne le esigenze stilistiche, o almeno le loro manifestazioni esterne, attraverso gli strumenti di Casadei e al di là dell’analisi filologica. La parola che più si addice alla descrizione dello stile di Miéville potrebbe essere biopoiesis: in questa crasi sono assieme la forza generatrice della biologia, la formazione e l’evoluzione di organismi viventi, e la poetica iridescente dell’artista.

China Miéville è un autore straordinariamente prolifico, pluripremiato, trasversale a tutti i generi del fantastico e in contrasto con le formule del racconto contemporaneo. Straborda di parole, la sua visione è ipertrofica, volta alla costruzione enciclopedica, massimalista, di mondi nuovi, articolati ecosistemi che obbediscono a leggi e dinamiche proprie. L’opera con la quale guadagna notorietà internazionale è la monumentale trilogia di Bas-Lag, pubblicata tra il 2000 e il 2004, un’opera ambiziosa costata dieci anni di lavoro. Più tardi nel 2009, ne La città e le città, Miéville mette in piedi un noir esistenzialista ambientato in due città dei Balcani, che da separate convivono sovrapposte nello stesso spazio. Nel 2011 è la volta di Embassytown, opera brillante, inaspettata, un’epifania di idee che vanno dal trattato di linguistica alla speculazione filosofica.

Miéville è lo scrittore intellettuale, un raffinato stilista di universi che riesce a coniugare il gusto per l’avventura e l’urbanistica sconfinata agli studi di antropologia sociale e filosofia del diritto, affiancando al mestiere di scrittore l’attivismo politico e la riflessione su socialismo e marxismo. I suoi romanzi sono arene per la riorganizzazione gerarchica culturale, integrazione, disparità sociali e privilegi, ma sempre con una sostanziale fede laica che guarda con gioia alla irrefrenabile proliferazione della vita nell’universo.

Nei libri-mondo di Miéville agiscono leggi naturali e fisiche mai solo funzionali alle esigenze narrative tipiche di un testo fantastico – sorprendere il lettore con il meraviglioso, stupirlo con le sue figure, portare a termine la storia. I suoi personaggi sono creature sussunte in un sistema, che non è mai stilizzazione solo formale. Abbandonate l’iperspazio, portali per la curvatura del tempo, spade laser, draghi che siano solo draghi; la visione di Miéville, per quanto estremamente sfaccettata, mette al centro delle propria inventio creativa la fondazione radicale di una humanitas postumana, che non è solo la somma, la superfetazione, degli immaginari sci-fi. I suoi personaggi sono sempre presentati in interazione con l’Umwelt – il mondo nell’esperienza soggettiva di ogni organismo – che lo stesso Casadei intende non tanto o non solo come ambiente generico, bensì come mondo personale, interno, in parte preesistente e in parte rimodellato sulla base delle proprie caratteristiche. In Miéville cioè la comunicazione, lo scambio, le metamorfosi, tutto avviene per un senso che non è solo quello letterario. Gli schemi della vita aliena, animale, mutante, sono pensati e originati con tanta coerenza da venire introiettati allo stesso modo in tutti i suoi personaggi, ognuno dotato della propria cultura, di un proprio comportamento sociale.

Donne con bocca d’insetto, bipedi anfibi con capacità taumaturgiche, uomini con teste di uccello, i garuda della mitologia indiana, ricordano le pitture rupestri di Lascaux, la proto-arte richiamata da Casadei in Biologia della Letteratura, il “Dio che balla” con la coda da scimmia nella grotta dei Cervi, figure legate alla primigenia del mondo e i suoi misteri, al racconto magico-mitico, al sacrale, alla necessità della narrazione come fondamento della psicologia culturale che conferisce significato al mondo.

A volte i protagonisti del romanzo ci assomigliano, ma non necessariamente nella antropomorfizzazione della figura o del linguaggio, né tantomeno nella condivisione dei valori o dei princìpi. Gli Ariekei, nel romanzo Embassytown, sono creature metà cavallo metà insetto, con ali prensili, che comunicano attraverso una complessa emissione polifonica. La lingua che parlano è il risultato della fusione di un inciso e un’eco, e acquisisce significato solo in virtù della loro combinazione reciproca. Il codice linguistico non ammette il minimo scarto dalla realtà, presuppone cioè l’esatta corrispondenza tra significante e referente; in altre parole, sono creature incapaci di mentire. Questo, precisa Miéville in un caso esemplare della sua maniacale sistematizzazione, è dovuto alla «coevoluzione di una bocca finalizzata all’ingestione e all’articolazione di parole, e quello che un tempo, con tutta probabilità, era un organo di allarme specializzato».

Avvicinare queste creature dalla posizione umana, come lettore, può non essere scontato, ma Miéville costruisce il caos dei mondi possibili per poi estrarne i “nuclei di senso” – espressione di Casadei – utili alla sopravvivenza delle sue creature. Se pure per vie diverse, le facoltà sviluppate da queste intelligenze, sembra suggerirci l’autore, sono dovute passare per le stesse albe e le stesse oscurità che noi abbiamo affrontato. Miéville riporta cioè l’empatia al midollo della sopravvivenza: vivere è tutto ciò che conta.

Riconoscere questi simulacri nella loro verosimiglianza porta al cortocircuito di ciò che possiamo dire “umano”. Le mimesis, i processi di copia e rimontaggio delle esperienze che le creature di Miéville compiono davanti alla minaccia e alla lotta, al bisogno, all’incontro tra le specie, al sesso, alla fuga, nell’impegno intellettuale, sono elementi che Casadei considera fondamentali per ciò che è stata la nostra evoluzione come specie verso l’arte, verso l’allegoria. Così come Casadei fa con l’evoluzione stilistica dell’arte, lo scrittore di Norwich posiziona i propri personaggi alla fine di un continuum, risultato finale di un processo evolutivo anche biologico, percettivo, che noi non conosciamo, ma che lui ha immaginato per noi. In altre parole Miéville non si limita a costruire romanzi, ci rende testimoni di cosa può essere condividere uno spazio evolutivo comune, contaminarsi.

Nella sua sfida emulativa, nell’elaborazione di possibili terraformi, Miéville nega stilisticamente la semplificazione, l’appiattimento ai prototipi di estetizzazione che oggi vanno per la maggiore (immedesimazione, fruibilità diretta, facile memorabilità, forte carica emotiva, ecc.), o semmai le reintegra in maniera originale nella grande opera-contenitore. Mette in piedi una narrazione cosmogonica che tiene sempre conto di questi aspetti: i valori simbolico-metaforici non sono mai slegati dalla necessaria interazione tra corporeità e pensiero, le propensioni biologiche e cognitive, a cui Casadei fa riferimento nel suo saggio.

Sempre riguardo a Miéville, Giovanni De Matteo scrive che «l’universo fisico non è separato dalla lingua usata per descriverlo, ma diventa un tutt’uno con essa. Sotto questo aspetto, l’autore sembra compiere una sofisticata manovra mimetica con le sue creature», siano esse gigantesche falene nere ebetizzanti, bracconieri umanoidi, coscienze robotiche, gli Ariekey di Embassytown. A sfogliare, uno accanto all’altro, questi due libri così distanti tra loro, quello di Miéville e quello di Casadei, il primo opera fantastica, il secondo rigoroso saggio accademico, ci si rende conto dello sforzo di immedesimazione dello scrittore inglese: lui stesso sociologo e antropologo, ricrea e schematizza nei suoi mondi ciò che Casadei cerca nell’ispirazione artistica e letteraria del nostro.

I romanzi di Miéville, e persino le figure che vi abitano, sono imbevuti di quella inventio che sta tra l’accettazione del reale e la sua negazione e ricreazione, della gradualità inestricabile tra biologico e simbolico. Ritmo, analogia, metafora, elementi dello stile il cui veicolo artistico è per Casadei ciò che rende un libro un’opera astorica, un classico. China Miéville è il punto di arrivo della storia simbolico-artistica che parte dalla convivenza tra Neanderthal e Sapiens, perché scrive conoscendo la feconda differenziazione della vita, tutta l’energia che c’è voluta per portarci dal mitocondrio fino a qui, e tutta quella necessaria per portarci altrove.

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