Obsolescenza Indie

di Riccardo Papacci


Probabilmente è impossibile far comprendere ai giovani di oggi cosa abbia potuto significare l’indie per quelli che intorno alla fine degli Ottanta, e poi per tutti i Novanta, avevano la loro stessa età. Il successo mondiale della trap ha fatto in modo che la gran parte dei tradizionali generi musicali discendenti dal rock risultassero d’un colpo sterilmente obsoleti, sostituiti dalla freschezza digitale di sample e autotune stranianti, decisamente più in tinta con i tempi che corrono. Da un giorno all’altro, la solitudine della cameretta vissuta con indosso una camicia di flanella a quadri che assorbiva i watt degli amplificatori è stata sopraffatta da social network, tatuaggi in faccia e casse audio bluetooth.

Eppure fa strano assistere a questo cambiamento epocale. Per un lungo periodo si è creduto che la forma canzone con accompagnamento chitarristico fosse qualcosa di intramontabile.

Non dovrebbe destare clamore giungere a questa consapevolezza proprio per mezzo della rivista musicale da sempre più attenta alle nuove sonorità e tendenze, The Wire. Il tutto si fa straniante quando accade il contrario, ovvero nel momento in cui il magazine inglese mette nella copertina di marzo Stephen Malkmus, leader dei Pavement, appena tornato con un nuovo disco.

Groove Denied, così si chiama, è un album che tenta di non procedere attraverso la solita formula tanto cara ai Pavement e al suo precedente gruppo, i The Jicks, ma presenta elementi più sintetici e, per così dire, elettronici. Certo, un’elettronica polverosamente retromaniaca, che risulta addirittura gradevole in certi momenti, ma sicuramente stantia. I momenti migliori arrivano, infatti, proprio quando Stephen torna sulle cose che sa fare meglio: canzoni à la Pavement, come Rushing the Acid Frat o Ocean of Revenge.

La suddetta copertina di The Wire andrebbe letta nel suo, implicito e forse non voluto, potenziale simbolico. Stephen Malkmus non è stato scelto per presentare il trend musicale del momento, ma per giocare con la sopraggiunta classicità del suo personaggio, la sua ecletticità da autore. Ma questo rito di passaggio, a prima vista individuale, sembrerebbe estendersi infatti a quello di un intero movimento, o addirittura epoca; anche per via di una congiunzione astrale che ha fatto ritrovare nello stesso numero le recensioni dei dischi appena usciti di Malkmus – appunto -, Meat Puppets, Guided By Voices, R Stevie Moore, Bob Mould. In altre parole, alcune delle figure cardine del pantheon indie. Tra questi c’è chi tenta di stupire con ben 32 canzoni (Zeppelin over China dei Guided By Voices), ma anche chi cambia rotta. È il caso dei Meat Puppets, che riunitisi con il batterista originale Derrick Bostrom, sfornano il loro album più interessante dai tempi di Mirage. Sebbene la band di Phoenix, Arizona, non abbia mai disdegnato aromi desertici all’interno dei loro album, in questo Dusty Notes il suono si fa orgogliosamente southern, tralasciando quasi del tutto la vena punk che li contraddistingueva. In ogni caso, nulla di imperdibile; e direi che vale lo stesso per gli altri dischi recensiti.

Tutto questo è faticoso da metabolizzare, anche per i più aperti a sonorità meno convenzionali. È infatti innegabile l’importanza che il rock si è ritrovato ad assumere, dagli albori dei Cinquanta più neri fino ad arrivare al processo di appropriazione bianco e di rarefazione continua tutt’ora in corso, nei confronti della canonizzazione della canzone popolare. Stiamo parlando di una tradizione che si rinnova da oltre mezzo secolo, anche inglobando nel proprio reticolo influenze esterne di ogni genere. Per esempio, negli Ottanta, l’intreccio di sonorità sintetiche ed elettroniche con le chitarre apportò tutta quella frizzantezza compositiva dei vari “post-”, “synth” e “new wave”; proprio dall’evoluzione delle intuizioni di alcuni gruppi chiave della new wave, del post-punk e del power pop nacque questo modo tutto nuovo di intendere il rock, che rappresenta poi una delle sue più sincere e ultime manifestazioni. Fu così che nacque l’indie rock: un genere che nasceva, almeno negli intenti, come risposta al rock mainstream da classifica e che riconosceva nella chitarra non l’oggetto machista, così come era stato per molti anni e così come ha continuato fino a poco fa a essere, ma un semplice strumento musicale utile ad esprimere sentimenti spesso anche molto intimi. A differenza di come lo si consideri oggi, era quindi un genere nobile, che aveva al proprio interno una fitta trama di sottogeneri e divagazioni. Attraverso questa nuova sensibilità, venne a crearsi un’intera cultura che ispirava film, libri, fumetti, mode e quant’altro – oltre che dischi, naturalmente. L’indie era infatti prima di ogni cosa un’attitudine.

Nel bene e nel male, tralasciando per un momento la musica, questo movimento ha creato nel corso del tempo tutta una serie di codici e profili estetici a dir poco riconoscibili. Oltre ai maglioncini a righe, al tratto volutamente imperfetto dei fumetti di Daniel Clowes, alla trama intimista e vaga dei film di Todd Solondz, tutta una serie di elementi sociali ed esistenziali vanno a definire ulteriormente la cultura indie – anche se nel periodo di grande confusione che viviamo, questo immaginario può benissimo essere confuso con quello nerd, geek, normcore, cutester.

Tutto ciò era nato come sottocultura prima di venir acquisito da quell’universo in costante espansione che risponde al nome di “mainstream”. Indie e alternative infatti, a soli pochi anni dalla nascita, divennero un genere ben codificato, scimmiottabile più o meno da qualsiasi manierista. Così, se attraverso Pavement, Pixies e altri aveva raggiunto picchi qualitativi notevoli, nel giro di qualche decennio è stato sostituito da gruppi come Arctic Monkeys e Libertines. Band che avevano completamente rigettato l’originario credo indipendente, quello per il quale, secondo l’ala ortodossa, indie significava essere indipendenti dalle major, in particolare dalle “Grandi Sei”: Capitol, CBS, MCA, PolyGram, RCA, WEA, che garantivano l’accesso a una grande distribuzione commerciale e l’opportunità di essere trasmessi nelle radio commerciali. C’è da dire che a tale atteggiamento avevano finito per cedere un po’ tutti col tempo, anche molti della prima ondata originaria, ma questo non aveva ancora abbassato così drasticamente il livello qualitativo. Ciononostante, fino a quando la trap non raggiunse la sua piena popolarità, le chitarre avevano continuato ad ispirare e produrre album importanti, basti pensare a quelli di Animal Collective e Ariel Pink. Molte microscene di matrice rock sono nate nel corso degli ultimi venti anni – alcune delle quali, paradossalmente, hanno operato in maniera determinante ad attuare questa sostituzione. Il fenomeno retromaniaco tanto caro a Simon Reynolds, fece certamente emergere cose interessanti, compreso qualche ottimo disco (Women, Avi Buffalo, Trust Punks, Twerps, DIIV, Parquet Courts, …), ma uscita dopo uscita si accentuava l’impressione di ritrovarsi a fare i conti sempre col medesimo suono.

twerps

Negli ultimi due anni però la situazione sembra essere addirittura più estrema. Da una parte l’avvento di internet, con tutti i vari social e i suoi canali di comunicazione davvero indipendenti, hanno un po’ indebolito il fascino del concetto di indie, dall’altra i suoni elettronici hanno iniziato a circolare un po’ ovunque, sempre più frequentemente anche nel circuito mainstream. Questi due fattori motivano anche il successo della trap, che è diventata nel frattempo, una delle espressioni dirette della canzone popolare contemporanea.

Si potrebbe dire che la trap è un’evoluzione dell’hip-hop – e dicendo questo si fregia l’hip-hop di doti progressiste: basta ascoltare i vari “sono ancora qui” e “ci sto dentro” contenuti in alcuni recenti dischi rap per capire che non hanno più l’effetto che avevano nei Novanta. La trap è invece una sorta di hip-hop cantato, con una componente lirica più nichilista e irriverente, la quale attraverso l’autotune riesce ad accedere a strofe melodiche e stranianti – in pratica a creare anthem da cantare, fregandosene altamente delle logiche old-school della metrica o di chiudere le rime. L’opportunità di fare musica in casa unicamente mediante un computer e poco altro ha contribuito in maniera determinante a lasciar scorrere quel flusso free impegnato nell’operazione di disaccademizzazione hip-hop. In apparenza in rottura con la vecchia scuola, la trap è probabilmente la sua prosecuzione più coerente e spontanea. Una chiave di lettura è offerta proprio da questo innesto sempre più invasivo con l’elettronica, fino a saturare, appunto, lo spazio vocale mediante l’autotune: del tutto naturale se si pensa alla visionarietà del primo hip-hop, tutto incentrato sullo scratch, la campionatura, il basso pesante. Da qui al ritrovare questi suoni al festival di Sanremo il passo non è stato poi così breve.

Fino a qualche tempo fa, infatti, autotune e beat ammiccanti non avevano ancora invaso le classifiche, ma c’è anche da aggiungere che la tecnologia nel frattempo è entrata in maniera sempre più insidiosa nelle vite di tutti, trascinandoci velocemente in un presente dominato da algoritmi e perenni connessioni a banda larga, oltre che da costanti proclamazioni di guerra, minacce ecologiche e un futuro sempre più distopico. Questo ha finito per influenzare pesantemente anche i prodotti culturali, i quali, in un momento storico in cui ci si interroga se le intelligenze artificiali siano in grado di creare autonomamente opere d’arte, sembrano virare anch’essi verso una maniacale evoluzione tecnologica.

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Inoltre, le liriche sguaiate e lo stile a dir poco vistoso del trapper, votato a un edonismo fine a sé stesso privo di prospettive, molto ha da dire sulla condizione esistenziale contemporanea. Mentre l’indie, che un tempo era stato portavoce dello stesso malcontento, seppur attraverso processi storici e sociali certamente differenti, sembra attualmente abbracciare uno sguardo disinteressato sull’oggi.

Tutto questo rende gli album nuovi delle vecchie glorie indie quantomai desueti. I casi concreti sono moltissimi, anche perché della spensieratezza, del cinismo malato, dell’anarchia pura e della spontaneità che caratterizzava dischi senza tempo come Crooked Rain, Crooked Rain, Meat Puppets II o Warehouse: Songs and Stories (per ricordare quelli citati) non vi è neanche l’ombra in queste nuove uscite. Quel che rende il tutto più straniante è l’intrinseca obsolescenza che li anima. Senza ricorrere a proclamazioni sensazionalistiche come “l’indie è morto” o “le chitarre sono diventate inutili”, piuttosto sembrerebbe innegabile constatare il passaggio verso una nuova sensibilità estetica innescata dall’avvento di internet.

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