Disfare il passato

di Alberto Ravani


La produzione di Édouard Louis è il racconto del dolore in cerca di una verità. Con l’uscita del monologo teatrale Chi ha ucciso mio padre si alza a tre il numero di opere di questo giovane sociologo francese pubblicate in traduzione italiana. In quest’opera, quasi un compendio della produzione di Louis fino ad ora, un figlio e un padre occupano la scena: «Solo il figlio parla» indicano le didascalie «è come se il padre non potesse ascoltarlo. Sono l’uno vicino all’altro ma non si trovano». Le opere di Louis non trattano che di questo: mondi che non si trovano e non si parlano con il solo effetto di produrre violenza. Essa infatti è l’effetto naturale che scaturisce da queste occasioni perdute. Chi è perso esce dal racconto della realtà: «Le vite come la tua non le vuole ascoltare nessuno» dice il figlio al padre, ex operaio alcolizzato e con la schiena a pezzi, a scuola infatti «ci insegnavano la storia del mondo e tu dal mondo eri tagliato fuori».

Il primo libro di Louis En finir avec Eddy Bellegueule esce nel 2014, in Italia il titolo è Il caso Eddy Bellegueule (forse con lo scopo di ammiccare a La verità sul caso Harry Quebert, enorme successo dell’anno precedente). Al centro del libro la difficile infanzia di Eddy raccontata partendo dalla fine degli anni novanta fino a quando non lascerà la famiglia e il suo piccolo paesino della Picardia per studiare al liceo di Amiens. Il libro non è un romanzo: Eddy Bellegueule è realmente esistito, nato nel 1992, ha avuto successo negli studi trasferendosi poi a Parigi per studiare nell’École des hautes études en sciences sociales dell’École normale supérieure. Nel 2013, dopo aver iniziato la stesura del suo primo romanzo, cambia nome in Édouard Louis. Il libro è quindi un’autobiografia, in una forma che deve molto ad Annie Ernaux;  con quest’opera Louis cerca di chiudere col suo vecchio io e col suo passato: ecco il senso del titolo che nell’edizione economica è stato corretto in Farla finita con Eddy Bellegueule.

«Della mia infanzia non ho alcun ricordo lieto… Semplicemente la sofferenza è totalitaria: ciò che non rientra nel suo sistema lo fa scomparire». Il dolore si presenta immediatamente già nelle prime righe. L’infanzia del piccolo Eddy, oltre che dalla povertà, è anche aggravata dal dolore e dalla vergogna di essere diverso. «Quando ho cominciato a esprimermi, a parlare, la mia voce ha spontaneamente assunto intonazioni femminili». Questa differenza viene subito percepita come una stortura dalla famiglia che, non comprendendola, ne cerca le cause: «Pensavano che avessi scelto di essere effeminato, come un’estetica di me stesso seguita per far loro dispiacere». Eddy si sente «dominato, prigioniero di quelle moine e non sceglievo affatto quella voce acuta» e confessa di «ignorare le cause di ciò che ero». Da quest’incapacità di capire e accettare il diverso nasce la violenza. «Nel corridoio sono comparsi due ragazzi» abbozza in pochi tratti. «Il grande dai capelli rossi mi ha sputato in faccia Beccati questo». Nel descrivere le scene la scrittura di Louis  rende la selettività del ricordo: l’ambientazione è sfumata – non si sa dove sia il corridoio o quando questo avvenga –, ma rimangono nitide le sensazioni «Lo sputo è colato lentamente sulla mia faccia, giallo e denso, come il catarro sonoro che ostruisce la gola dei vecchi o dei malati, dall’odore forte e nauseabondo». La scrittura è materica e ossessiva «mi cola dall’occhio fino alle labbra, mi entra in bocca» e fa emergere il dolore nato anche dall’indifferenza: «nessuno ci badava, intorno a me, ma tutti sentivano».

Il libro non si limita a essere storia del dolore del piccolo Eddy, ma si allarga a ricercare le cause di questo dolore e di questa violenza finendo col descrivere la vita e le abitudini violente di un intero paese. Al ricordo Louis giustappone altri due piani: il primo è l’opinione degli abitanti del piccolo paese di Eddy. Cerca di ricostruire le frasi verbatim riportandole in corsivo e senza ricorrere al discorso diretto. Laura, la prima ragazza con cui Louis cerca di “diventare uomo”  «aveva una cattiva reputazione». «Le donne davanti alla scuola: Una ragazzina non dovrebbe vestirsi così alla sua età, è mancanza di rispetto, i ragazzi: Laura è una troia». Quest’attenzione all’espressività dei ceti popolari deve molto a La miseria del mondo a cura di Pierre Bourdieu, un’analisi sociologica in cui le banlieu parigine fra gli anni ’80 e ’90 vengono descritte dalla viva voce degli abitanti intervistati da un’équipe di sociologi. Bourdieu è infatti centrale nella carriera accademica di Louis che nel 2013 ha curato il volume Pierre Bourdieu: l’inoumission en héritage. A differenza delle indagini sociologiche, la parola degli abitanti del paesino di Eddy è ricostruita partendo solo dal ricordo. Lo scarto fra pretesa scientificità e ricostruzione fittizia lascia spazio all’invenzione letteraria.

Oltre al ricordo e alle parole degli abitanti Louis aggiunge anche il piano della riflessione sociologica con lo scopo (vano?) di dare un senso al mondo del suo passato. La madre «aveva diciassette anni quand’è rimasta incinta. I suoi le hanno detto detto che il suo non era un comportamento prudente, né molto matura Potevi stare più attenta». Il commento: «è come se, in paese, le donne facessero figli per diventare donne, altrimenti non lo sono davvero. Sono considerate della lesbiche, delle frigide».

Centrale nel libro è il rapporto con il padre un ex operaio alcolizzato, in congedo dopo che un incidente gli ha spezzato la schiena: egli è schiacciato fra il sentire comune del paese e l’amore per il figlio. «La vergogna si mescolava spesso alla fierezza quando si trattava di me. Mio padre non mi diceva niente, ma mia madre mi raccontava Non bisogna prendersela con lui, sai, è un uomo e gli uomini non dicono mai quello che provano». Anche la madre, nella sua semplice profondità nota le tante contraddizioni della sua vita: «perché insomma è strano, non è logico, dice che gli arabi dovremmo ammazzarli tutti e quand’era nel Midi il suo migliore amico era un arabo». Sarà infatti un corsivo del padre a dare l’unica risposta che, senza trovare una verità, tenta almeno di porre fine al dolore e alla sofferenza. Dopo che Eddy ha inscenato una falsa fuga solo per poter essere rincorso, «puzzava di alcol (mia madre l’indomani E con la tua fuga gli è andato alla testa prima del solito, si è preoccupato davvero tuo padre). Ha pianto a sua volta Non devi fare così, lo sai che ti vogliamo bene, non devi cercare di salvarti». La contradditorietà del padre si risolve capendo che per uscire da realtà difficili non c’è solo la salvezza, ma a volte basta la comprensione. Nessuna delle riflessioni di Eddy è così pregnante, così profonda e così assolutoria.

Il libro mostra le grandi potenzialità di un autore ancora acerbo. Un resoconto ben scritto sulla propria infanzia difficile non basta però per lasciare il segno: il peso dei ricordi di Eddy, forse troppo vicini, non lascia a Louis lo spazio per astrarsi; spazio che invece troverà nei libri successivi.  

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Il secondo libro di Louis, Histoire de la violance (Storia della violenza) è uscito nel 2016 sia in Francia che in Italia. L’opera, sempre autobiografica, è incentrata questa volta su un singolo evento: la violenza sessuale che Louis ha subito la notte di Natale del 2012. Quella sera in place de la République, rincasando, Louis incontra Reda e rimane «sconvolto dalla sua bellezza»; aveva però «deciso di rincasare e di dormire, malgrado la sua bellezza, malgrado il suo respiro»; Reda insiste e Luis capisce che «ciò che voleva era Reda nel suo appartamento. Nel suo letto». Tutto all’inizio sembra calmo, ma, mentre si sta già facendo mattina, qualcosa rompe l’equilibrio fra i due. Le loro somiglianze, e anche un comune passato all’insegna della diversità, non riescono a parlarsi: entra in scena la violenza. Prima Reda tenta di ucciderlo, poi gli fa violenza e scappa.

Nonostante il narratore sia interno, ed è lo stesso Louis, l’episodio non viene mai raccontato direttamente, ma riportato sempre in forma mediata, quasi come se servisse sempre un filtro fra la verità di una realtà violenta e il lettore. La maggior parte delle scene vengono narrate come se Édouard stesse origliando la sorella Clara che racconta l’episodio al marito. «Allora finalmente quello fa la domanda, tende la mano verso Édouard e chiede cos’abbia nella sua, e Édouard cosa gli risponde? Dei libri, solo dei libri e Reda gli dice che sembrano interessanti». Lei ovviamente arricchisce commentando: «e io ho detto a Édouard: Ah noterai che quando spieghi qualcosa a qualcuno o gli descrivi quello che fai ti rispondono sempre che è interessante, le persone hanno sempre questa parola in bocca, sempre, è interessante». In altri momenti, invece, Louis immagina di rivivere il racconto fatto alla polizia: «Aveva domandato: “E lei ha fatto salire uno sconosciuto così, nel suo appartamento, in piena notte?” Avevo risposto: “Sa, tutti lo fanno…»

L’intero romanzo è infatti un grande racconto della violenza: il singolo episodio è anche il pretesto per raccontare le molte violenze che hanno segnato, fino a quel momento, le vite di vittima e aggressore. Paradigmatica è la violenza che subisce chi porta il fardello della “diversità”, presente anche nelle reazioni della polizia durante la denuncia:  «aveva rincarato la dose: “Tutti?” con aria ironica, beffarda, sarcastica. Non mi chiedeva evidentemente se tutti si comportassero così o no, ma mi faceva capire che nessuno lo faceva. A ogni modo non tutti. E, infine la mia risposta: “Volevo dire, quelli come me…”». Di violenza è anche piena la vita di Reda, figlio di un immigrato cabila: «Ho detto a Clara che doveva essere un uomo che aveva sempre vissuto con la fantasia di andarsene, di fuggire. Suo padre. È una fantasia banale, ma ci sono banalità che emancipano». Reda però non riesce ad emanciparsi e rimane vittima della violenza con cui è cresciuto: «parlava degli arabi nello stesso modo dei poliziotti». La violenza a cui Louis fa riferimento non è meramente fisica, ma anche simbolica: quella che, secondo la definizione di Bouridieu, viene esercitata su un individuo con la sua complicità. Reda è vittima di pregiudizi che lo riguardano.

I racconti di violenza sono molti, ma il dolore minuziosamente descritto è solo quello che segue all’abuso sessuale. «Le lacrime non erano necessarie, basta il mio corpo». Dal dolore la riflessione si sposta sul poter comunicare il dolore e la violenza: «ciò che si definisce parlare è più vicino al soffrire, al tacere, al vomitare che al parlare». Parlando si rivive tutto, si rivive un dolore incomunicabile: «ripetevo con altre parole per cercare di raggiungere la verità». È una verità irraggiungibile, così oscenamente reale da costringerci a una menzogna salvifica: «Le mia guarigione è venuta da lì. La mia guarigione è venuta dalla possibilità di negare la realtà». Bisogna infatti convivere con una memoria troppo pesante e «la sola via d’uscita è raggiungere una forma di memoria che non ripeta il passato».

«Cerco di costruire una memoria che mi possa permettere di disfare il passato». Questa frase, riferita nel libro alla notte della violenza, descrive l’intera produzione di Louis. Storia della violenza è senza dubbio un’opera più matura che riesce in meno di 200 pagine a raccontare un episodio di violenza dando conto, attraverso l’intreccio di diversi piani narrativi, dell’impossibilità di poter arrivare ad una verità complessiva. Il racconto dell’accaduto è sempre mediato e mai direttamente tangibile, come mai chiara e immediatamente comprensibile è, infondo, anche la realtà che ci circonda.  L’autore cerca così «di utilizzare il dopo per conferire un senso al prima», ma lo stile è corroborato da una maggiore consapevolezza, anche dei propri limiti: non è necessario descrivere il dolore. La letteratura stessa, come insegna Gadda, è cognizione del dolore.

La terza opera, Qui a tué mon père, monologo teatrale di appena 60 pagine,  replica schemi e concetti già espressi nel primo libro del quale, per altro, ripete anche gli eventi. Come già si evince dal titolo, ritorna centrale il tema del padre, che non riesce a mostrare i propri sentimenti «è normale vergognarsi di amare?», e del dissidio col figlio che sente “diverso” . Il titolo è un chiaro riferimento a J’ai tué ma mère, opera prima del regista Xavier Dolan a cui il libricino è dedicato; in comune le due opere hanno anche il fatto che l’assassinio evocato nel titolo è solo metaforico: per quanto goda di pessima salute, il padre è vivo alla fine della piéce, ma «la storia del tuo corpo accusa la storia politica». Ancora una volta è il corpo ad essere testimone «sia della violenza che esercitavi sia di quella che subivi». Nell’ultimo quarto del monologo nomina i maggiori politici francesi degli ultimi vent’anni che lui considera «assassini che non sono mai nominati per gli omicidi che hanno commesso». Questa è la vera novità rispetto al primo romanzo, peccato che Louis non riesca a farne il perno attorno cui far ruotare le vicende già raccontate: la scrittura è molto più matura ed efficace rispetto al primo libro, ma tende a ripetere gli stessi eventi senza che vengano completamente rivisti in una chiave più originale.

Édouard Louis è sicuramente un autore promettente: con il tempo lo stile si mostra sempre più consapevole così da infiltrarsi sempre meglio fra le trame dei ricordi che ora riesce  meglio a gestire. Data la ripetitività di argomenti in Chi ha ucciso mio padre, il rischio è però che, avendo basato l’intera sua produzione sull’autobiografia, la vena creativa stia venendo a mancare. A prescindere dalle differenze di medium e di più sottili sfaccettature tematiche, la voce di Louis e quella dell’amico Xavier Dolan puntano a far emergere i problemi che ancora oggi comporti vivere la propria sessualità quando si distacca da ciò che viene orridamente definito “normale”. Entrambi gli artisti hanno come riferimento Jean-Luc Lagarce – da una sua piéce Dolan ha tratto È solo la fine del mondo – rispetto a lui rappresentano però la generazione successiva per cui vivere la propria omosessualità è qualcosa che comporta sicuramente meno problemi rispetto agli ‘80/’90; ma, al netto della legislazione, l’affresco è quello di un mondo in cui vivere la diversità comporta ancora dolore. Un dolore che si acuisce in contesti sociali difficili. La letteratura registra e denuncia, ma non fornisce spiegazioni o verità in merito alla coraggiosa sofferenza di chi ancora oggi ha il coraggio di pronunciare la parola “io”.

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